Variazione sul tema: l’indeterminato-a-tratti-regolare fluttuare di un’identità. E come un pieghevole che illustri il programma di un concerto, ecco apparire, il (e non “in”, si badi) campo lunghissimo di un paesaggio dai vivissimi colori in bianco e nero, in cui cercare con lo sguardo quest’identità. Uno sguardo che viene posto subito sull’attenti, dunque, richiamato a cercare il suo oggetto, proprio lì dove esso svanisce in una risposta perentoria: “Io non sono qui”. La pellicola firmata da Todd Haynes, con il beneplacito dell’ispiratore passivo del progetto, niente di meno che Bob Dylan, e controfirmata da una carrellata di attori in stato di grazia, soprattutto la stupefacente Cate Blanchett, ha un merito particolare: lavora, con coinvolgente sensibilità, sul materiale di cui si fa carico: la vita di un uomo che ha fatto della propria arte la propria identità, inevitabilmente mutevole come le diverse tracce di disco. E allora ecco che il cinema si fa testimone, oltre i confini di qualsiasi spazio letterario, di quel coacervo di emozioni, libero pensiero e apertura mentale che è la musica in generale, in particolare quella del cantautore-poeta americano, nel suo vitale apporto all’esistenza di chi ne è appassionato. Materializza maniacalmente ciò che Dylan, ha pensato, raccontato, fatto, rappresentato e amato (vedi Ben Wishaw nella minimalistica interpretazione di un attualizzato Arthur Rimbaud, o Charlotte Gainsbourg che interpreta due personaggi, in una performance senza soluzione di continuità), ipso facto catapultando tutto il coacervo di cui sopra, con grande potenza visionaria, nel cuore dello spettatore, anche non fan dylaniano. Ha detto Dylan: “ Posso accettare il caos, ma non sono sicuro che il caos accetti me”: questo raffinato caos cinematografico sulla sua storia è sulla via della riconciliazione.
Giulio Ortolani
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