La capacità di entrare in contatto diretto con le persone, di ascoltare con reale interesse per gli altri. Ken Loach, il grande maestro del cinema dalla parte degli ultimi, affronta i problemi di petto, senza giri di parole, con la coerenza lucida che lo ha guidato nell’intera carriera, illuminata di successi, da Piovono pietre a Io, Daniel Blake e Il vento che accarezza l’erba, vincitori della Palma d’oro a Cannes. Proprio un anno fa, al Festival, Loach aveva presentato Sorry, we missed you, cento minuti per descrivere l’inferno dei nuovi schiavi degli Anni Duemila, gli «auto-sfruttati» delle consegne a domicilio, lavoratori senza tetto né legge che, dall’emergenza Covid, vengono fuori più deboli e in pericolo che mai.
Siamo destinati, dopo l’esperienza del Covid, a un ripensamento globale, da tutti i punti di vista, economici, politici, sociali. Cosa può succedere?
«Tutto può accadere, ma il ripensamento sarà possibile solo se ci saranno un programma politico e una leadership in grado di attuarlo. Sì, sicuramente le persone hanno riscoperto il vicinato, hanno capito che, se agiscono insieme, possono diventare forti, che bisogna prendersi cura l’uno dell’altro e che i problemi non si risolvono mai in solitudine, ma dividendoli con il prossimo. E poi tutti abbiamo respirato aria pulita, ci siamo resi conto di quanto sia diversa da quella a cui siamo abituati e abbiamo capito che non è giusto il continuo super-sfruttamento delle risorse ambientali. Tutte queste consapevolezze hanno però bisogno di essere tradotte in un programma politico che investa nei servizi pubblici, che punti a rilanciare il valore del lavoro non per arricchire i profitti dei padroni, ma per soddisfare i bisogni di ognuno. Sennò i sentimenti nuovi corrono il rischio di evaporare e così torneremmo tutti indietro, come se niente fosse successo».
La crisi del lavoro è il primo fra i drammatici problemi all’orizzonte del dopo-pandemia e i precari, come quelli del suo film, sono le vittime designate. Che ne pensa?
«Sì, è vero. In questa fase i fattorini delle consegne a domicilio hanno avuto tantissimo da fare, siamo stati tutti chiusi a casa e abbiamo avuto bisogno di loro. Ciò non toglie che essi continuino a lavorare in condizioni pessime, di totale vulnerabilità. Sono sotto pressione e avrebbero bisogno di grande aiuto perché entrano in contatto, senza nessun tipo di protezione, con tanta gente che, magari, potrebbe essere malata. Penso che la loro sia tra le prime situazioni a dover essere sanata, prestano servizio presso agenzie private e quindi non rientrano in nessun piano generale per la salute. E invece dovrebbero avere contratti, salari e protezioni adeguate».
In queste settimane l’Europa Unita è apparsa spesso come un sogno sul rischio di spezzarsi. Lei come la vede?
«Il punto è sempre lo stesso, ovvero il fatto che le radici su cui si basa l’Unione europea siano prima di tutto il libero mercato e solo in seconda posizione i bisogni delle persone. Così il profitto resta sempre l’esigenza prioritaria e questo è molto pericoloso. Mi interrogo su che cosa resti della sinistra europea, quella con una visione diversa, e credo, per esempio, che dovremmo ascoltare Jannis Varoufakis. Abbiamo bisogno di un’Europa unita con altri princípi, interessata a proteggere l’ambiente, a tutelare i basilari diritti dei lavoratori, a produrre cose di cui abbiamo bisogno e non solo a favorire la corsa al consumismo».
Come pensa che il suo governo abbia affrontato l’epidemia?
«È stata una gestione del tutto fallimentare. Quello che stava per verificarsi era chiaro, ma non ci si è mossi in tempo, anzi. Ci sono stati grandi ritardi, in tutto, a iniziare dal reperimento degli equipaggiamenti necessari a evitare i contagi. E poi anche una gran confusione sul piano dell’informazione, sulle cose da dire alla gente. L’impressione è stata che i nostri governanti non sapessero come maneggiare la questione. Il risultato è che ora, guardando la cifra totale dei decessi, non è chiaro quanti siano morti per il virus e quanti, invece, abbiano perso la vita perché il sistema sanitario, sopraffatto dall’emergenza, non è stato in grado di curarli adeguatamente. Le ragioni di tutto questo vengono da lontano, hanno a che fare con il programma di “austerity” attuato dal governo, un piano ha riguardato proprio i pubblici servizi. Dieci anni fa furono messi a punto gli strumenti necessari per affrontare una crisi del genere, ma poi non sono mai stati rinnovati e adeguati al passare del tempo, insomma, si tratta di un fenomeno di incompetenza su larga scala».
Il presidente statunitense Trump sta portando avanti la campagna secondo cui i responsabili della diffusione del Coronavirus siano gli scienziati cinesi. Che ne dice?
«Non lo so, sono qui a casa come lei, non ho informazioni dai servizi segreti che mi possano dire come stanno le cose. Credo, però, che la Cina abbia fronteggiato l’epidemia meglio degli Stati Uniti e ho l’impressione che Trump stia cercando solamente di creare un nemico facilmente identificabile, un trucco, un modo razzista di affrontare le cose».
Come è stato il suo lockdown?
«Ho cercato di fare una passeggiata ogni giorno, ma, a essere onesto, tra mail e altro, ho avuto sempre un sacco da fare. Penso che, se tutto questo fosse accaduto trent’anni fa, avremmo avuto tanto tempo libero, ma adesso non è così, e sono certo che sia lo stesso anche per lei. Vediamo i nostri ragazzi negli incontri Zoom quasi tutti i giorni, e questa è una cosa buona, anche se io, in quel tipo di collegamenti, non resisto molto a lungo».
Sta pensando a un nuovo film?
«Non so, è una possibilità, non sto realmente pensando a un nuovo progetto e comunque ritengo che la crisi sanitaria abbia cambiato tutto, a iniziare dallo stato d’animo delle persone, dalle loro priorità. Qualunque film si faccia, bisognerà tenere conto di questa platea diversa».
In molti si interrogano sul tipo di cinema che verrà dopo la pandemia, facendo paragoni con il dopoguerra. Che idee ha in proposito?
«Non so, dopo la guerra la gente viveva periodi terribili, forse potrebbe esserci un nuovo neo-realismo, credo che tutti avremo bisogno di ridere, ma anche di pensare, la gente avrà voglia di riflettere, per non tornare indietro, al caos che c’era prima, alle pessime condizioni vissute ai tempi di Thatcher, di Blair e di Johnson, il virus ha messo a nudo tutto questo».
Il Covid ha messo in ginocchio il cinema in sala, favorendo la diffusione dello streaming. Come andrà a finire?
«Certo, lo streaming potrebbe avere un’influenza molto forte sulla sopravvivenza dei cinema. Per quanto mi riguarda no, non riesco a vedere un film se non in una sala. Ma penso anche che, a suo tempo, si era detto che il cinema avrebbe ucciso il teatro e poi che la televisione avrebbe ucciso il cinema, poi però non è accaduto niente di tutto questo. La gente ha bisogno di storie e di ritrovare se stessa sullo schermo. È importante, quindi, e questo dovrebbe essere un altro impegno della politica, che ogni piccolo paese continui ad avere il suo cinema con una programmazione interessante, che faccia riscoprire la gioia di vedere un film in sala e, adesso, anche quella di uscire di casa».
(Fonte: La Nuova Ferrara. Intervista a cura di Fulvia Caprara)
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