Tra le nuove aggiunte di Netflix, disponibile dal 1° Maggio sulla piattaforma streaming, All day and a night è la seconda prova dietro la macchina da presa, a distanza di quasi vent’anni dall’esordio, per Robert Joe Cole, conosciuto soprattutto per alcune sue sceneggiature, quali per esempio The People v. O.J. Simpson: American Crime Story e Black Panther.
All day and a night: quando non bastano “tutto il giorno e la notte” per capire chi siamo
In All day and a night (qui il trailer) Cole mette in campo ciò che ha imparato nel corso degli anni, concentrandosi su quelle che sono le dinamiche all’interno di una comunità afroamericana e scegliendo come suo portavoce un ragazzo comune. Jahk (il sorprendente Ashton Sanders di Moonlight) proviene da una famiglia che vive di stenti, con un padre violento (Jeffrey Wright) a fargli da esempio e una madre (Kelly Jenrette) che seppur premurosa non riesce a far quadrare il cerchio. Eppure il giovane ce la mette tutta per non lasciarsi schiacciare da quel destino che definire avverso è un eufemismo, quello che lo vorrebbe gangster o schiavo di un sistema dal quale si è marchiati a vita.
“Se aveste tutto il giorno e la notte per capire la vostra vita?” è la domanda che si pone Jahk, condotto da chissà quale forza, avversa o salvifica, a dover fare i conti su chi lui sia, sul percorso che lo ha condotto sin lì e sull’eredità che intende lasciare al proprio figlio. Presentatoci in una maniera quasi falsata durante il devastante prologo, il protagonista ha una storia da raccontare, personale ma anche comunitaria, esemplare e biasimevole al tempo stesso.
Le regole della sopravvivenza
Con un flashback siamo portati indietro di 13 anni, a fare la conoscenza di un Jahk bambino, preso di mira dai bulli di turno e fiancheggiato da un paio di amici sui quali può far affidamento. La banda, così di moda tra ragazzi di qualsiasi età, razza o credo, diviene qui un mezzo necessario alla sopravvivenza.
E si parla di sopravvivere attenzione, non di vivere. Perché è questo, secondo il nonno di Jahk, che la schiavitù ha insegnato ai neri. Vediamo quindi il gruppetto riempire di botte il malcapitato di turno: che se lo sia meritato o meno, la regola numero uno è colpire per primi. Vige infatti un rigido sistema, da seguire pedissequamente e senza alcun tipo di ripensamento o remora.
Abituati a respirare violenza al posto dell’aria, i giovani coltivano ambizioni ben più grandi di loro, ma non sarebbe così strano né pericoloso se non si trattasse di voler diventare i boss della strada. In un’esistenza “normale” le ambizioni conducono al miglioramento, all’evoluzione, al benessere, in simili casi ad attendere chi le possiede ci sono la galera o la morte. “Una vita normale è meno probabile di una lotteria” rende bene l’idea e introduce un altro discorso, a esso immediatamente collegato.
Fuggire non basta per sentirsi liberi
Nonostante l’ambiente circostante infatti, Jahk e il suo amico Lanmark (Christopher Meyer) scelgono una strada alternativa – il primo la musica, il secondo l’esercito – suggerendo emblematicamente quella via di fuga tentata da molti ma dalla quale comunque nessuno si guadagna la libertà. Proprio quest’ultima si rivela una tematica importante all’interno della narrazione, affrontata come un concetto utopistico e complesso.
La prigionia è qualcosa di intrinseco ad alcune vite, come per esempio quella del protagonista e di chi gli è accanto, ma ciò non gli impedisce di combattere per sentirsi anche solo un minuto libero. Non ci sta a soccombere alle eventualità del caso e allora il semplice gesto di seminare una piantina acquista un valore incalcolabile, ricucendo al tempo stesso un rapporto mai realmente nato e causa di profonde ferite.
Con un epilogo debitore delle più celebri tragedie, All day and a night è un’opera potente, viscerale, simbolica, capace di restituire un doloroso spaccato della realtà e di consegnare una seppur misera scia di speranza.
*Salve sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.