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Shtisel: una serie Netflix poco conosciuta rispetto ai suoi tanti meriti

Come Unthordox, Shtisel tratta il tema della difficile appartenenza, stemperato però da un’ironia sempre presente

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Il tema dell’appartenenza

Il grande successo della serie Unorthodox ci dà modo, finalmente, di parlare di un’altra storia ambientata tra le comunità ultra-ortodosse, sempre su Netflix, uscita nel 2013: Shtisel, che merita davvero di essere raccontata. Ha avuto molta risonanza in Israele, ma stranamente pochissima da noi. Con Unorthodox condivide il tema dell’appartenenza, della difficoltà di adattamento ai rigidi dettami familiari e sociali, a logiche quotidiane così lontane da noi, eppure così normali per chi le vive.

Il dramma stemperato dall’ironia

Rispetto a Unorthodox, il dramma è sempre stemperato da una piacevolissima ironia, dall’umorismo tipicamente yiddish che rievoca le tante letture o le scene filmiche che conosciamo. I dialoghi di Woody Allen, per primi, o i motti di spirito tanto amati da Singmud Freud, e i brevi spassosissimi testi di Moni Ovadia (quelli di Così giovane e già così ebreo). Ancora, forse più di tutti, i racconti efficaci di Isaac Singer. Negli shtetl di un tempo, a Gerusalemme oggi, o nel cuore dell’’odierna Brooklyn, una cultura che rimane intatta, almeno nei gruppi Haredì, con le incrollabili chiusure che si fanno sicurezze. Niente tv, internet o altri simboli di modernità. Così, la nonna Shtisel che in casa di riposo scopre l’entusiasmo per la televisione e le trame di Beatiful diventa veramente comica, insieme ad altre situazioni spassose scritte e girate dai giovani autori, Ori Elon e Yehonatan Indursky.

Delicatezza nella resa dei personaggi

Si sorride con autentica simpatia davanti ai personaggi, che i registi, nella vita molto religiosi, hanno saputo rendere garbatamente, e come fossero narratori interni alla storia. Senza giudizi o pregiudizi, ma con una delicatezza che inizia fin dalla sigla. Gerusalemme. Quartiere di Geula. Musica che sembra una nenia, parole della canzone in lingua originale (tutta la serie alterna ebraico e yiddish), ritmo lento, immagini a tratti sfumate. Akiva, detto Kive (Michael Aloni) e suo padre Shulem (Dov Glickman) sono ripresi dall’alto e di spalle, separatamente, mentre camminano piano. Poi avanzano verso la macchina da presa, sempre a riprese alternate. A Kive, distratto come poi sapremo, conoscendolo, cade il quaderno di disegni. Lo riprende, rivolge lo sguardo sognante al cielo, e, ripresa la sua andatura, si attorciglia i payot, timidamente. Shulem invece controlla l’orologio, pulisce gli occhiali, fuma (niente altri vizi, ma quanto fumano in questa serie!). Uno ci si presenta già come un’artista svagato, l’altro è colui che controlla. Però, almeno nella sigla, si incontrano. E, un braccio del padre sulle spalle del figlio, iniziano a salire una scala. Non importa vedere tutta la scena: bastano i piedi dei due appaiati nella salita.

Rapporto complesso tra padre e figlio

Un anticipo di ciò che avverrà nelle due stagioni di Shtisel, cioè i ripetuti allontanamenti padre-figlio e gli inesorabili ritorni. Kive vuole rispetto per le sue scelte. Quella amorosa per Elisheva (Ayelet Zurer) e quella artistica nel seguire il suo talento di pittore. Shulem le disprezza entrambe, tanto che lo sentiamo dire al figlio: “Con te ho perso ogni speranza” fin dal primo episodio. Elisheva, due volte vedova e con un bambino, è per lui una cotoletta riscaldata, rispetto alle offerte di matrimoni combinati di cui Kive potrebbe vantarsi. Kive e Shulem vivono insieme a un anno dalla morte della madre di Kive, che Shulem ama ancora silenziosamente, mentre trama, vergognandosene, per cercare una nuova moglie.

Ricerca del ruolo familiare e sociale di ciascuno

Risponde in pieno allo stereotipo del rabbino di tanta letteratura, nella sua miscela di sarcasmo e amore che non esprime, perché cultura e carattere non glielo consentono. Anche il giovane Kive è rabbino. Insegna, insieme al padre, alla yeshivah ketanah, Shulem con i modi burberi che gli appartengono, Kive con la sua imbranataggine.
Lì, gli allievi imparano tutte le regole di un buon haremì; le benedizioni, per esempio, di cui è piena la giornata, anche solo prima di bere un bicchier d’acqua. Sono bambini e ragazzini, inutile dirlo, maschi. Eppure, il personaggio più radicale di tutta la serie è femmina: si tratta della nipote Rushama (l’intensissima Shira Haas, protagonista di Unorthodox). Incredibile come ciascuno trovi il proprio ruolo in una comunità opprimente, ma a suo modo rassicurante. Le donne in particolare, per non soccombere del tutto, sperimentano soluzioni tra le più fantasiose (dalla manipolazione, all’attacco diretto, al ricatto) dimostrando comunque una forza superiore a quella degli uomini.

Fascino e ambivalenza del protagonista

Ma quanta fatica dovrà fare Kevi per trovare la sua strada senza rinnegare le norme, e se stesso! Il fascino del personaggio sta proprio in questa ambivalenza, nella ricerca di un equilibrio instabile su cui fondare la sua identità. Un dramma che di volta in volta si ricompone, e che non esplode nella fuga, come avviene invece per Esty di Unorthodox o per i tre protagonisti del documentario One of us (anche questo consigliato) che testimoniano il loro allontanamento senza ritorno dalla comunità e la loro sofferenza.

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