La premessa
L’epopea vichinga volge decisamente al termine in questi episodi della sesta serie, i quali trascinano lo spettatore verso quella oscura caverna, quell’antro nascosto nel ventre della montagna, nel quale Floki era scoppiato a piangere e ridere contemporaneamente, una risata folle la sua, che ci ha accompagnato per tutte le serie e che ci mette di fronte al triste presagio della fine, la fine degli dei norreni, la fine della civiltà vichinga, la fine della visione per noi spettatori. Un lutto, comunque, è quello che ci era stato preannunciato nella seconda parte della quinta stagione. Nulla di nuovo per chi ha seguito questa serie iniziata in Italia nel lontano 2014, costellata continuamente da un senso di morte, cosa normalissima per quei popoli e quei tempi. Il senso del divino è alla base di tutta la narrazione, il divino che è nella natura, nella bellezza delle donne, nella forza degli uomini che combattono, nella vita che nasce e cresce, nella morte stessa.
La narrazione secondo Michael Hirst
Questo senso del divino così forte, messo in mostra dalle vite intense, ricche di motivazioni, tanto elementari quanto genuine, quali sono la fame, il sesso, la sete, il freddo, fa di Vikings il capolavoro ideato da Michael Hirst, sceneggiatore con all’attivo la serie Tudors e film di successo come Elizabeth. Il suo processo creativo Hirst lo definisce “un caos organizzato” e proprio grazie a questo meccanismo, a cavallo tra emozioni e razionalità, ha reso così realistico il pur romanzato mondo di Vikings.
La società è corrotta
Il perfido Ivar, passato dal ruolo di carnefice a quello di vittima, trama nell’ombra come ha sempre fatto, subdolo, striscia tra le pieghe dell’animo del suo interlocutore, comprendendone i suoi più profondi desideri. Insieme alla sua psicologia, è importante osservare quella di re Harald, il quale inizia a tramare progetti di potere assoluto, mentendo, fingendo, sfruttando i desideri di re Olaf e riuscendo al fine a conquistare la corona di re, desiderata dal primo momento in cui si era presentato. È importante notare che mentre inizialmente la società vichinga, pur nella sua atroce ferocia, ci era stata presentata come pura, legata ai ritmi della natura e fondamentalmente corretta dal punto di vista della giustizia, andandosi legando alla società cristiana lentamente diviene sempre più corrotta, ricordando negli atteggiamenti e nelle trame di palazzo quello che abbiamo visto nella vecchia Inghilterra invasa dai vichinghi. La corruzione, sembra dirci Hirst, è insita nell’organizzazione sociale. Più la società si evolve e diviene complessa, più i giochi di potere si fanno subdoli e la corruzione divampa, portando inevitabilmente ad una crescente decadenza.
La parabola discendente
Così si va delineando l’inevitabile parabola discendente di un popolo. La battaglia finale, come ha dichiarato lo stesso Michael Hirst a Variety, è ispirata al D-Day della seconda guerra mondiale. I Vichinghi in questo caso rappresentano il passato, mentre i Rus’ sono il nuovo che avanza, con nuove sorprendenti forze governate da strategie all’avanguardia. Le donne, che nella società vichinga ricoprivano ruoli paritari agli uomini, vengono sostituite da delicate ragazzine, quale è la moglie di Oleg; la società dei Rus’ più maschilista prende il sopravvento su quella decisamente più femminista dei vichinghi. Il tocco delicato della mano del regista Daniel Grou ha voluto sottolineare poeticamente il passaggio da un’era a quella nuova, tramite il rapporto vis a vis dei due fratelli Bjorn e Ivar, i quali, mentre la battaglia imperversa spietata, dialogano seduti su di una spiaggia surreale. Non sappiamo se vi sarà un seguito alla sesta serie. Certamente la vita per i vichinghi si è fatta decisamente più dura del passato.