Tornare: la società fa ancora fatica ad accettare la femminilità. Conversazione con Cristina Comencini
Con Tornare Cristina Comencini continua a raccontare la femminilità alle prese con una società che fatica ad accettare le manifestazioni della sua libertà. Tra sogno e realtà, Tornare è un viaggio nella memoria di un'anima divisa in due. Di seguito la conversazione con la regista del film
“Non c’è passato, non c’è presente, non c’è futuro. Il tempo è solo un modo per misurare il cambiamento”. La frase del fisico Carlo Rovelli, quella posta in calce all’immagine di apertura, è indicativa della materia di cui tratta il film e della forma con cui la si racconta. Lo è, in particolare, di una dimensione temporale in cui il prima e il dopo coesistono nel presente di Alice, la protagonista della storia.
Questa idea era contenuta in un lavoro letterario mai concluso e del quale mi sembrava molto bella la compresenza, in uno stesso momento, del passato e del presente. Parliamo di una realtà conosciuta tanto bene sia dalla fisica, ma anche dall’arte e dal cinema, abituati a declinare il tempo e a mescolare gli accadimenti del passato e del presente, qualche volta anche del futuro. Forse a essere originale è la giustapposizione nello stesso presente di Alice e del suo alter ego giovanile, senza dimenticare che a un certo punto le protagoniste vengono raggiunte da un terzo personaggio e cioè dalla bambina che entrambe sono state. In realtà, è come se Tornare fosse il sogno di ognuno di noi, quello in cui cerchiamo di capire chi sia la ragazza o il ragazzo ritratto nelle fotografie, perché spesso ci ricordiamo diversi da come siamo stati. È questa l’idea di partenza del film.
Infatti, l’attualità della storia sta anche nello sposare la tesi scientifica secondo cui l’osservazione di un evento è capace di influenzarne gli sviluppi.
Nel film c’è proprio questo e cioè un’indagine interiore che coinvolge la protagonista ma anche la città e, soprattutto, la casa in cui essa ritorna. Una ricerca portata avanti come fosse un rebus, con oggetti, cose e persone che spingono Alice verso qualcos’altro. Ma hai ragione te, poiché il cambiamento prodotto dall’irrompere del passato nella vita della protagonista ci dice come lei sia motore delle cose messe in campo ma, allo stesso tempo, agita da esse. In tal senso, il film andrebbe visto come un viaggio emotivo in cui i fatti si mettono insieme non secondo una logica di causa effetto ma come reazione a quel nuovo modo di osservare le medesime cose. Ogni volta che ad Alice succede qualcosa la realtà che le sta davanti cambia. È un po’ questa la strada del film.
Si, perché senza svelare la risoluzione della storia, che a un certo punto diventa una sorta di thriller esistenziale, è proprio l’approccio di cui abbiamo parlato a far cambiare le cose. Se l’evento che ha causato il dramma non si può cancellare, a mutare è la consapevolezza di Alice, che le permette di portare a termine il percorso di liberazione. Uno scarto colto dalle immagini nella differenza tra l’inizio e la fine. Nei minuti conclusivi vediamo Alice e le sue compagne di viaggio non più separate e costrette all’interno della casa, ma unite e soprattutto sciolte da vincoli.
Esatto. All’inizio questo succede perché, essendo loro prigioniere in lei, Alice non riesce a vederle. Non solo non se le ricorda ma è determinata a continuare a farlo. Dunque, quelle due parti di lei sono chiuse nella casa: una non fa altro che giocare, l’altra è bloccata nella stanza dalla quale non può uscire. Nel momento in cui si rimettono in circolo dentro di lei Alice coglie l’occasione per entrarvi in contatto e portarsele via. Il concetto espresso da Rovelli è interessante nel cogliere la condizione del cambiamento e cioè di come il tempo agisca sull’origine della nostra esistenza, facendoci diventare diversi da come eravamo. Io ho applicato questo concetto a un essere umano e alla sua storia. Si tratta di consapevolezze che la psicanalisi ben conosce, soprattutto di come ciò influenza la vita degli esseri umani.
Per commentare queste implicazioni si potrebbe usare uno dei credi della religione buddhista per cui “l’unica costante dell’esistenza è il cambiamento”. Dunque, Tornare è universale anche nel modo di percepire la realtà.
Si. In effetti nel film ci sono due realtà, quella in cui Alice esce con questo uomo e l’altra, in atto dentro di lei, ma non meno reale della prima. È l’incrocio tra questi diversi livelli a riportare Alice e le sue compagne di viaggio all’evento che l’ha indotta a scappare dalla città. Sono dimensioni che camminano insieme e sono molto contenta di questo film. Al di là del fatto che possa piacere o no, credo sia un’opera molto libera. Io almeno mi sono sentita così nel farlo. Quando l’abbiamo scritto l’aspetto più complicato è stato quello di tenere in vita l’idea di un’indagine che doveva essere risolta. Però i sistemi per realizzarlo sono stati di tipo associativo; non coerenti e razionali ma ispirati da collegamenti emotivi e dalla comprensione di realtà diverse attraverso le quali si arriva alla soluzione.
La riflessione presente in Tornare la si ritrova in numerosi studi, nella letteratura, penso a Pessoa e alla distinzione tra vita ideale e vita pratica. Detto questo, nel film gli ambienti sono protagonisti alla pari dei personaggi. La stratificazione di una città come Napoli, per esempio, rimanda a quella temporale, presente anche all’interno della casa e di riflesso nel film.
Si, a un certo punto ci siamo convinti che la città dovesse essere Napoli. In seguito ho trovato questa casa in cui invece di salire si scende per vie interne fino al piano più basso, aperto sul mare e adibito a deposito, in cui la famiglia teneva mobili e oggetti accatastati. Dunque, la sua atmosfera rimandava a qualcosa di interiore. Io faccio sempre film in cui le case sono centrali, dotate di una propria personalità e sempre in relazione con i protagonisti. Soprattutto in questo caso. Scoprendo che c’erano delle grotte, mi è sembrato bellissimo farne il nascondiglio del gioco infantile di Alice e del suo amichetto. Anche lì, curiosamente, la preparazione e i sopralluoghi sono stati come il film e cioè mi trovavo davanti degli elementi che sembravano venirmi a cercare. È successo anche con il parco archeologico, scoperto durante le ricerche. Ho visto questo tunnel e, curiosa di conoscere dove portasse, me lo sono fatto aprire, rimanendo sorpresa nel vederlo. Dunque, anche la scelta dei luoghi è stata come un rebus che si costruiva mentre io gli andavo incontro. Erano loro a venire da me.
La presenza del parco archeologico è decisiva per la riuscita di una delle sequenze più importanti. Ambientare la tragedia di Alice in un anfiteatro greco romano fa dei personaggi e del senso di colpa archetipi da tragedia greca.
Si, certo, ma infatti la cosa è quella. La tragedia si compie nel parco archeologico, perché quello che accade appartiene alle nostre origini. Cioè, se guardiamo alla tragedia greca, questa cosa si verifica ogni volta, dunque raccontiamo una vicenda antica come il mondo e che vive tra quelle rovine. In relazione a questo mi è sembrata molto appropriata la presenza del muro segnato di rosso, come a sottolineare quanto fosse antica l’origine di questi comportamenti. Per questo mi sembrava molto appropriato ambientarvi la scena in questione. Il fatto di vederla ballare in quel luogo concorre a fare di Alice una Ninfa mitologica. Presa in volo, viene buttata a terra.
Tornare si racconta anche attraverso le immagini. In questo senso, mi piace sottolineare la corrispondenza tra la sequenze che aprono e chiudono il film. Dal dettaglio delle tre matriosche, allusione alle differenti età di Alice e alle declinazioni del tempo in passato, presente e futuro, allo specchio d’acqua contenente il volto delle protagoniste, sigillo della ricomposizione psicologica ed esistenziale della protagonista.
Si, e anche del fatto che siamo fatti di parti diverse e tali rimaniamo. L’ultima scena sta a significare che ognuna di loro viene accolta. Spesso non succede così; alcune vengono messe da parte. Accade con l’infanzia, spesso esclusa per riuscire a sopravvive ad essa. In qualche modo, queste tre parti convivono dentro di lei e a un certo punto è come se si rimettessero in circolazione.
D’altronde, anche la scelta del nome è evocativa, perché quello di Alice collega il film al celebre romanzo di Lewis Carroll. Anche in Tornare la protagonista è al centro di un viaggio interiore e onirico.
La cosa curiosa è che l’ho chiamata così senza rendermi conto delle implicazioni con il romanzo di Carroll. Le mie sceneggiatrici, Giulia Calenda e Ilaria Macchia, si sono meravigliate quando gli ho detto di non aver pensato a questo riferimento. Non mi ero resa conto che tutto questo ci potesse essere, soprattutto nella bambina. E poi è vero, se vogliamo, c’è l’allusione a un viaggio fantastico.
A proposito di metafisico, mi interessava sottolineare il lavoro svolto da te e Ilaria D’antonio (direttore della fotografia, ndr) sugli aspetti ìvisivi. La casa in cui vive Alice è piena di recessi e, attraversandoli, la macchina da presa ne spezza l’uniformità in una continua alternanza di luci e ombre. Nella scena del ballo, una delle più belle e significative, l’oscurità non è naturale ma metafisica, a indicare un luogo dell’anima.
La scena a cui ti riferisci non doveva essere troppo realistica perché, anche non trattandosi di un sogno, doveva rendere l’idea che Alice camminasse in mezzo alle persone senza essere vista. Per questa ragione la luce è come se fosse filtrata e capace di rendere più lenti i movimenti delle persone. Nella fattispecie, ho chiesto a protagonisti e comparse di muoversi con azioni rallentate per dare la sensazione che Alice stesse attraversando un ricordo. Daria ha fatto un lavoro molto molto forte con quella scala, usando anche del fumo. Il risultato è stato tale da fare dello spazio un luogo della memoria, senza però perdere alcunché in termini di concretezza, perché comunque c’erano dei ragazzi che ballavano e festeggiavano.
Nel film si dice che, al contrario del passato, fatichiamo a riconoscere le cose del presente. Volendo allargare il discorso, mi pare si tratti di un’affermazione che riporta al centro della questione l’importanza delle esperienze nella costruzione dell’oggi.
Sì, nel cinema e nella letteratura la memoria è una delle componenti fondamentali del raccontare, perché si tratta sempre di rimettere in vita cose che non sono sotto i nostri occhi. La memoria è sempre piena di buchi, molte persone non si ricordano di quando erano piccole e quel poco che si conserva lo apprendono dalle fotografie. Che poi il senso è un po’ quello che dice la sorella ad Alice, e cioè che si vogliono ricordare solo le cose belle, perché sono quelle medianti le quali riusciamo a sopravvivere e a stare bene. Però, poi, il fatto di non volere rimembrare ricordi magari dolorosi ci impedisce di vivere. Da qui la necessità del viaggio salvifico e liberatorio dentro la nostra memoria.
In Tornare si ragiona sul rapporto tra donna e società, a partire dal giudizio negativo con cui le persone guardano alla libertà di Alice, colpevole solo di essere stessa. Un problema ancora oggi di massima attualità.
È una questione ancora irrisolta. La libertà e la sessualità delle giovani donne è percepita sempre con paura dai ragazzi. In questo senso, Tornarepotrebbe essere un film sull’impossibilità di accettare la libertà di vivere delle ragazze più giovani. In quegli anni, perché la storia si svolge in parte nel 1966, prima della grande rivoluzione di costume, Alice sente questa voglia, ma viene fraintesa perché in realtà la sessualità femminile ancora oggi impaurisce gli uomini. E questo è anche un altro tema del film.
Infatti, Tornare è anche un film sugli uomini. Il personaggio di Mark, interpretato da Vincenzo Amato, li incarna nella loro irresolutezza e nell’incapacità di amare.
Si, certo, in Mark violenza e controllo si confondono. Lui è l’esempio dell’amore frainteso, quello che non può vivere senza il possesso e che considera la libertà qualcosa da reprimere anche con la forza. Dunque è vero, questo è un film sugli uomini. D’altronde, loro ci sono sempre, perché a me interessa la realtà in cui ci sono uomini e donne.
Nella vicenda umana della protagonista è fondamentale la figura del padre. L’autorità del genitore di Alice è enfatizzata dal fatto di essere un alto ufficiale dell’esercito, dunque per sua natura predisposto ad agire con rigore.
Certo, perché il problema dipende anche dai padri. La femminilità non ha ancora pieno accesso nella società perché veniamo da millenni di chiusura e di repressione che la fanno percepire con paura. Per questo ogni volta che viene fuori si fa di tutto per controllarla. La storia è piena di questi esempi: basta pensare alle isteriche e alle streghe (ride, ndr). La paura della sessualità legata alla femminilità delle ragazze è un tema di cui parlo e scrivo da sempre.
Il famoso disciplinamento.
Sì, beh Foucault ha scritto un saggio meraviglioso sull’argomento. Viviamo in un’epoca in cui questa percezione è ancora molto presente e nel film se ne parla. Alice vorrebbe solo divertirsi, ma non può farlo perché il suo comportamento è considerato negativo da chi le sta intorno e anche dai ragazzi.
Come accennavi, Tornare prosegue un discorso più volte affrontato nel tuo cinema. Se però in un film come La bestia nel cuore la similitudine del contesto è affrontato con una forma classica, Tornare si fa più ardito per la maniera in cui il tempo influenza la narrazione. Ma la grande differenza è la tenerezza con cui ti rivolgi alle protagoniste. Un modo che ho trovato simile a un altro film sulla memoria e cioè Peggy Sue si è sposata di Coppola.
La tenerezza è un bel termine perché in realtà è quella che esiste tra le due Alice ed è testimoniata dall’abbraccio del padre, capace di riconoscere sua figlia dietro la donna che sta sbocciando e di stringerla a sé senza alcuna paura. Dunque, alla fine la tenerezza è il sentimento che libera Alice dalle sue paure e che le fa salutare la madre in partenza per andare a fare le compere. Hai ragione a usare questa parola perché ha un significato importante. Tra l’altro, così si intitolava il bel film di Gianni Amelio,
Il tuo è un cinema di personaggi e dunque di attori. Con Vittoria Mezzogiorno avevi già lavorato, con Vincenzo Amato invece era la prima volta. A loro hai chiesto una performance complessa, perché al realismo dei sentimenti doveva seguire un tipo di recitazione anti naturalistica.
Sì è trattato di una circostanza molto complessa, perché da un lato dovevano sembrare di essere dentro un sogno, quindi in luoghi non realistici, quelli delle tappe della ricostruzione del Sé di Alice. Dall’altro, però, si parlava di cose concrete e di persone in carne e ossa. Dunque dovevano essere tutte e due le cose. Credo che loro siano stati molto adatti per farlo, perché Vincenzo ha questo modo quasi distratto, come se ogni volta che parla pensasse a un’altra cosa, il che faceva gioco al fatto che il suo personaggio nascondeva ad Alice la sua vera natura. Giovanna questo doppio pensiero ce l’ha in maniera naturale, cioè sembra sempre possedere dentro di sé una verità più profonda rispetto a quanto dice. Dunque, alla fine tutti e due dialogavano nel presente, ma si capisce che comunicavamo a un altro livello. Una ricostruisce le informazioni e cerca di capire, l’altro la spinge verso l’ignoto.
Dicevamo che con Mezzogiorno avevi già lavorato. Com’è andata questa volta ?
Sì, la conoscevo già. Abbiamo fatto due film insieme e sono stati una tappa importante per entrambe. Lei è una vera attrice e come tale ha un mondo suo, con delle profondità che non c’entrano nulla con quello che scrivi nella sceneggiatura. Quando i grandi interpreti dicono qualcosa sembra provenire da un mondo un po’ misterioso. Gli attori di livello fanno questo: hanno qualcosa dentro che non è il copione e riescono comunque a essere se stessi. Sono in grado di leggere la situazione e a renderla sempre in profondità. Noi ne abbiamo di molto bravi. Lei lo è, soprattutto per i film drammatici è una delle più valide.
Lo chiediamo a tutti, quindi lo faccio anche con te, interrogandoti a proposito del tuo cinema preferito.
Mi piacciono molto le commedie, quelle della nostra tradizione, ma anche le americane di Billy Wilder e Woody Allen. La stessa cosa vale per i thriller e i film drammatici. Penso ancora al Billy Wilder de Viale del tramonto, oppure a Polanski. Mi è sempre piaciuto moltissimo Fellini, ma lui ha il gradimento di tutti per la grande capacità di mettere nell’immagine delle visioni. Questa libertà visionaria mi piace molto. Comunque è sicuro che ne ho dimenticati molti.