Todo modo, un film del 1976 diretto da Elio Petri. Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, è l’ultimo del connubio cinematografico, ma anche politico e ideologico, del regista Elio Petri e l’attore Gian Maria Volonté, sodalizio che contribuì alla fortuna del cinema politico italiano degli anni Settanta. Rappresenta il ritratto degli uomini di potere deviati della Democrazia Cristiana. La prima del film fu il 30 aprile 1976. Realizzato nello stesso periodo di Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, anch’esso ispirato a un’opera di Sciascia, Todo modo contribuisce allo sforzo del cinema italiano nell’interrogarsi sul futuro politico di un paese in piena crisi. Nel 2014 il film è stato restaurato, grazie all’opera della Cineteca di Bologna e del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Sceneggiato da Elio Petri e Berto Pelosso, con la fotografia di Luigi Kuveiller, il montaggio di Ruggero Mastroianni, le scenografie di Dante Ferretti e le musiche di Ennio Morricone, Todo modo è interpretato da Gian Maria Volonté, Franco Citti, Marcello Mastroianni, Mariangela Melato, Michel Piccoli, Renato Salvatori, Ciccio Ingrassia.
Sinossi
Mentre nel paese infuria un’epidemia, un centinaio di “notabili” del partito che da trent’anni governa l’Italia si riunisce in un albergo convento per seguire un corso di esercizi spirituali condotto da un gesuita, don Gaetano. In realtà ai convenuti preme soltanto concordare una nuova spartizione del potere. Ben presto, dopo un furto sacrilego, la riunione si trasforma in rissa e cominciano i morti.
La recensione di Taxi Drivers (Claudio Vettraino)
Sarebbe fin troppo facile parlare di un film come Todo Modo in questi giorni in cui gli scandali che coinvolgono importanti regioni italiane come il Lazio, Piemonte ed Emilia Romagna scuotono ed indignano il paese. Troppo facile vedere nei tristi e pruriginosi personaggi che ruotano attorno alle corti del potere (uso un termine volutamente medioevale e pre-illuministico perché di questo si tratta), nell’edonismo festaiolo di acre sapore imperiale a danno delle casse già pingui dei comuni e delle regioni, in attesa di vere riforme e di uscire da questa benedetta crisi, analogie con altre crisi e con la decadenza di altri sistemi di potere. Eppure, un film terribilmente complesso come Todo Modo, scomparso per decenni e finalmente riapparso negli ultimi anni grazie al prezioso lavoro di restauro portato avanti dalla Cineteca Nazionale, ci permette di capire dove è iniziata la parabola discendente del nostro paese. Ci consegna la testimonianza filmica di una classe politica delirante, completamente in balìa di una visione distorta della realtà.
È corretto asserire che Todo Modo rappresenta una sorta di incubo gotico-romantico, in cui tutte le forze mistiche della natura violata si ribellano e cercano vendetta, scatenando l’inferno sulla terra, evocando simbolicamente (attraverso classiche icone come la cripta, teschi, ossa ammucchiate, teche di vetro con dentro santi imbalsamati, ecc.) una rutilante, carnosa discesa agli inferi, una notte perenne in cui gli spettri chiedono udienza al tribunale della storia, in cui volti familiari trasfigurano divenendo irriconoscibili, innominabili, perdendo ogni contatto con la realtà, toccando con mano l’inevitabile putrefazione di quella che oggi chiameremmo la casta e con essa del potere che incarnava e che la rendeva intoccabile, avulsa rispetto alle oggettive trasformazioni del tempo (l’avanzata del PCI nel ‘76) e dai concreti bisogni dei cittadini che – in buona fede – la perpetuavano.
Ma la sua forza attrattiva sta principalmente nel proporre al contempo l’impegno pressante ad una radicale autocritica in grado di coinvolgere in prima persona lo spettatore. La formula potrebbe essere questa: io regista ti mostro lo sfacelo in cui siamo caduti, ma tu cosa hai fatto per evitarlo? Quali scelte hai operato? Ti senti degno della classe politica che ti rappresenta? Avresti potuto scegliere diversamente? Ti senti in pace con la tua coscienza? Cosa farai d’ora in poi? E il magnetismo che emana da ogni fotogramma risiede proprio nella sua eterea ma brutalmente espressiva carica morale. Un istinto alla moralità che non scade mai nel moralismo né nel pedagogismo. Elio Petri era troppo intelligente per illudersi di “educare le masse” con questo film. Un film anche troppo difficile per i suoi tempi; in quanto occorrono svariate conoscenze filosofiche e storiche per comprendere innanzitutto il libro di Leonardo Sciascia e di conseguenza il film. Il suo obiettivo era quello di denunciare l’anarchica irrefrenabile del potere, nel permettersi di annichilirsi per rinascere a nuova vita e contemporaneamente sottolineare la perniciosa complicità del singolo, apparentemente estraneo alle sue logiche autodistruttive, che rappresenta anzi l’antidoto al suo perpetuarsi disumano ed alienante.
Esempio lampante di questa doppiezza che caratterizza gli onesti cittadini e gran parte degli organi dello stato (incapaci per mezzi e uomini a contrastare il dilagare della corruzione e dell’abuso d’ufficio) è la figura del magistrato (interpretato da un ovattato Renato Salvatori) che, incaricato delle indagini sulle strane morti avvenute nell’eremo Zafer durante gli esercizi spirituali, finisce per essere travolto dal corso degli eventi, trovando tragicamente la morte nella resa dei conti finale. Un redde rationem compiuto da forze oscure, senza volto né nome, rimaste dietro le quinte a coordinare le operazioni di “pulizia” della vecchia ed inabile classe dirigente; un potere invisibile armato di videocamere nascoste, che registra e ricatta, tenendo con ciò in mano le redini effettive del potere. Un potere mediatico ancora “artigianale” ma già onnipresente (tutte le sale e i corridoi dell’eremo sono sorvegliati, cosi come le camere degli ospiti) che nella metà degli anni settanta compiva i primi passi verso quella videocrazia, ponendo le premesse di quel famoso “metodo Boffo”, in cui si può uccidere un uomo senza ucciderlo, divenuto negli ultimi anni tristemente famoso come arma principale di lotta politica.
La politica, e questa è l’essenza principale del cinico machiavellismo di Sciascia-Petri, è da sempre sintesi inscindibile di ricatto e corruzione. Solo così può essere paradossalmente presente senza essere efficace, soprattutto in un paese come l’Italia da secoli scissa e retta da un fragile e precario equilibrio delle forze in campo. Un film insomma di rara potenza visiva ed estetica, che intreccia barocchismi verbali, gestuali, chiaroscuri stilistici tipici dell’inquisizione spagnola (non a caso i riferimenti a Sant’Ignazio di Loyola sono costanti duranti tutto il film rappresentandone l’ossatura narrativa) e della retorica “millenarista” della controriforma con l’espressività etica dell’immagine, costruita quasi geometricamente senza dubbi né sbavature, dell’avanguardia espressionista.
Impossibile entrare nella maestria di Petri nel dirigere attori praticamente eccelsi per interpretazione, tono, gestualità, caratterizzazione di umore mefitico, da “fine del mondo”. Ospiti ancora per poco di una terra – civettando il Decameron di Boccaccio – dilaniata dalla peste (da un male economico-politico e di conseguenza etico-morale, autenticamente antropologico), in grado di rendere patetiche marionette le loro maschere. Primi fra tutti un insuperabile Gian Maria Volonté nel ruolo del Presidente e un inedito ed intensissimo Marcello Mastroianni nel ruolo del mefistofelico Don Gaetano. Vederli duettare è un vero e proprio spettacolo; un film dentro il film.
Aggiungiamoci una sceneggiatura accattivante, spigolosa, già lessicalmente attuale, con attente “corruzioni” prese dal gergo popolare, non così usuale all’epoca nel cinema d’autore. Un cinema che cercava viceversa di accreditarsi un linguaggio, un’estetica filmica “elevata”, incorrotta dal parlare comune. Scenografie da apocalisse, con il bunker di cemento armato disperso in una pineta metafisica, che potrebbe essere ovunque; potrebbe anche rappresentare un luogo della mente, la voglia vana di fuggire dal pericolo incombente che tutti sentono sempre più vicino ed angosciante. Una fotografia perfetta grazie alla quale la corposità e la pastosità dei colori (soprattutto quelli primari, nero, rosso, blu, verde ma anche il grigio e il bianco) e il contrasto luminoso del chiaroscuro emergono con particolare impatto emotivo, dando alla luce e al buio, al bianco e al nero la loro precisa connotazione etica. Insomma una perla rara e coraggiosissima del nostro cinema per troppi decenni dimenticata.