Oscuro è il presente e pieno di macchie. Che cos’è una macchia? Risponde Francis Bacon, durante un incontro con Marguerite Duras, nel 1971 e tradotto in italiano solo qualche mese fa da Domenico Brancale.
“La macchia è l’accidente. Ma se ci si attiene solo all’accidente, se crediamo di capire l’accidente, facciamo ancora dell’illustrazione, poiché la macchia somiglia sempre a qualche cosa. Non si può capire l’accidente […] comincia sempre con le macchie? Quasi sempre. Loro sono gli avvenimenti che accadono, ma che accadono attraverso me, attraverso il mio sistema nervoso che è stato creato nel momento della mia concezione”.
Macula è un oggetto inclassificabile, un’opera senza contorno, un incontro tra figure apparentemente lontanissime. Eppure prossime nella sperimentazione e nella radicalità, “ una tensione di forze contrastanti o coincidenti fino all’esplosione”. Giuseppe Spina, fondatore e animatore da anni di Nomadica, circuito per il cinema di ricerca, racconta questo mirabile incontro, e quel che dice risuona, nel rileggerlo, quasi come quei celebri titoli di testa, detti fuori campo, all’inizio del godardiano Le Mepris:
“Ho intrecciato i miei esperimenti in pellicola 35mm ad altri realizzati gomito a gomito con Leonardo Carrano, che ha a sua volta animato una serie di disegni del suo “Ritratto ai confini”(con il supporto del grande Mario Addis). Poi la scoperta di una rara composizione di Ennio Morricone (che ha visto pochi esperimenti del film ed esaltato l’ha concessa). Andrea Martignoni ha aggiunto dei suoni, Corrado Iuvara ha risistemato un po’ i colori, e infine Antonio Rezza, che “ha visto tutto”, gli ha dato la parola e la voce.”
Macula è un viaggio oscuro, un esperimento imprevedibile di sovrapposizione di piani e di linguaggi, mettendo insieme, in lotta, la lucidità “concreta” di una voce, la fantasmagoria “astratta” dell’intervento su pellicola, le accensioni sonore, vivaldiane, impertinenti. Il bianco/nero lotta contro l’intero spettro cromatico emergente dalle macchie che avanzano sinistre, sospinte dagli archi. Corde tese nella notte. Emersione repentina e fugace di colori. Un lento avanzare di forme magmatiche. Preludio a un precipizio. L’esito è una scheggia impazzita, acuminata, capace di conficcarsi nella carne. Un fulmine nella notte, un’opera ibrida, una sfida fatta di macchie profonde e trasalimenti. Si scivola da un piano all’altro, dentro e oltre una realtà disfacentesi, agitata forma prelevata dal nero abisso, in metaforfica emulsione tra fughe e addensamenti. Quattro anacoluti si chiama il brano di Morricone che qui sentiamo, e l’anacoluto forse ben descrive la struttura di Macula, fatta di intromissioni di frammenti sintatticamente sconnessi, di deviazioni brusche del discorso.
Una struttura – è lo stesso Spina a indicarcelo – fondata su “una disarmonia almeno doppia: ogni elemento è infatti disarmonico in relazione agli altri e lo è al contempo nel suo stesso costituirsi, cioè al suo interno. Questa danza claudicante, questo prigioniero del buio, questa Macchia (sociale/artistica/formale) è destinata a rappresentare la totalità della composizione, nel suo stesso farsi.”
Da dove si vedono queste macchie? Quale occhio le genera o le avvista?
Mai più sperimentabile che in questi giorni permeati da una condizione globale di semi-reclusione, “esiste un fenomeno che la scienza ha definito “prisoner’s cinema”. Si tratta di apparizioni di forme e luci, variazioni di colori, generate in chi vive confinato per troppo tempo al buio, a causa di una reazione dei fotorecettori combinata alla condizione psicologica del soggetto.”
L’immagine si riempe e si svuota, il quadro si ricolora. Le macchie avanzano, minacciose. Quasi una colata lavica, astrale e insieme microcellulare. Si aprono e si chiudono voragini, contro, o meglio oltre, tanto cinema che ama togliere le macchie dal reale, mostrando solo la faccia più retorica e igienizzata, perbene. E invece, nella condizione dell’oscurità, indigesta alle dinamiche del controllo, dove non si vedono più i confini, le minacce si possono solo immaginare e le soluzioni paradossali – il paradosso di andare avanti per tautologie – possono diventare strumento di lotta feroce, felice.
Lo vedo, in una stanza angusta come una cella, agitarsi tra porta e finestra col movimento continuo della fiera in gabbia.
Non siamo qui nella condizione del sonno, quella del cinema in poltrona, tra gli aegri somnia oraziani, vaneggiamenti d’infermo, ma dentro una dimensione più vigile, più allucinata. Viene piuttosto in mente Giacometti quando raccontava dell’esperienza che cambiò il suo modo di vedere, descrivendo un momento al cinema, dove vede tutto diventare macchia, senza più distinguere l’immagine proiettata dalla realtà (ne parla Elio Grazioli. O ancora il fibrillante D’Annunzio del Notturno: “La stanza è muta d’ogni luce. Scrivo nell’oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l’una e l’altra coscia come un’asse inchiodata. Imparo un’arte nuova.”
Così nei frammenti animati di Macula (riemersi da Ritratto ai confini, il progetto di Leonardo Carrano legato alle opere di Samuel Beckett), qui ritagliati e fortemente connotati dalla voce di Rezza, una figura solitaria, animalesca, rapace, in gabbia ma al contempo caduta in terra in un limbo color petrolio, senza precisi confini, è pronta ad esplodere, insinuando il pensiero nei “palazzi di notte, cimiteri affrettati”, in quelle case-celle, che sono oggi più che mai “i nostri laboratori somatopolitici”, come ha suggerito nei giorni scorsi Caterina Serra.
La morte a rate, ecco che cos’è la nottata
Il testo di Rezza è lotta feroce, ha gli artigli taglienti del killer del buon senso comune, né amicizia né speranza, tra parole, tra parola e immagine. Tracotanta e prevaricazione tra volontà in lotta per la sopravvivenza, per scongiurare, almeno per un po’, l’alito cattivo del prossimo. Una combinazione esplovisa. Di pirotecnia, del resto, si parla esplicitamente. Ogni fotogramma è in qualche modo epifania, atto di creazione, espansione inesausta del big bang. E no, Dio non centra niente. “Dio che non ci sei. Non sei nemmeno in quarantena”.
Andando a fondo, ci si annida in livelli dentro altro livelli, dentro altri livelli. Antonio Rezza è ancora macchina linguistica trasparente e inesorabile, senza metafisica, a corto di trascendenza. Il suo discorso procede secondo una logica efferata, che si costruisce per proposizioni, organizzazioni di organizzazioni, e che non porta letteralmente da nessuna parte, ma ci incastra dentro un abisso linguistico, un effetto matrioska in cui gli elementi si ripetono e si ripropongono, insinuanti, in una mise en abyme sull’orlo del paradosso, del mordersi la coda del senso: “Sogno nel cassetto, il cassetto”.