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Mondi in rovina: la cultura ai tempi del coronavirus
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5 anni agoon
Non è che non fosse prevedibile, eh. Forse non previsto: ma la linea è dritta e tracciata da tempo.
Quante volte gli organizzatori dei Festival, chiedendo sussidi e finanziamenti agli enti pubblici, si sono sentiti dire che non c’erano fondi, per poi vedere che le (scarne, questo è vero) casse dell’erario si svuotavano ancora di più dando la precedenza ad altri settori che non fossero la cultura e lo spettacolo?
Quante volte in stato di necessità ad essere eliminati sono stati gli spettacoli, i fondi per gli operatori dello spettacolo, sono stati cancellati gli eventi?
Ottimista senza motivo -o illuso, che dir si voglia- chi pensava che mentre e dopo l’emergenza Covid qualcuno avrebbe pensato a quel settore che viene sempre in fondo, sempre per ultimo; e chi il 25 marzo 2020 o il 26 aprile credeva che nelle parole delle istituzioni, riflesso dell’operato per salvaguardare un’Italia in asfissia, si potesse intrufolare la parola “cultura”.
LA CONDIVISIONE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
E si capisca bene: qua non si critica l’operato di chicchessia, semplicemente si tasta il polso di un paese che, per abitudine sociale consolidata negli ultimi 30 anni almeno, ha messo al primo posto delle proprie priorità altro che non sia l’arricchimento culturale, pensando che il necessario, e il fabbisogno primario, stiano altrove.
Certamente non si può dire che non sia cosi, almeno in parte: ma si è persa l’opportunità, ora che i cigni si riprendono il loro posto nella laguna di Venezia, di rimettere le cose in una giusta prospettiva, una prospettiva che desse uno sguardo lungo su più cose. Facciamo un esempio pratico: ora che si sta tutelando la propria salute chiusi in casa, rinunciando -per un lasso di tempo ancora non precisato ma non lungo quanto si vorrebbe far credere- a spostarci nello spazio (e questo, si badi bene, non è per una forma larvata e sottocutanea di regime totalitario, di stato di polizia: chi lo pensa vada a studiare bene la storia), ci si sta rendendo meglio conto di quanto necessaria sia la cultura. Che nel senso etimologico, reperibile in una qualsiasi Treccani è: “termine che deriva dal verbo latino colere, coltivare, utilizzo esteso all’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizioni in elemento costitutivo della personalità morale”.
Liberando le proprie menti da pensieri preconcetti e partitici, cosa vuol dire cantare “Bella Ciao”? Cosa vuol dire condividere un canto di una canzone? Cosa vuol dire affacciarsi dal balcone per ritrovarsi con altri esseri umani per un’attività condivisa? Proiettare dai balconi un film, riscoprire Truffaut e Bunuel, utilizzare i social (Dio salvi i social) per “un quadro ogni giorno”, “un fumetto ogni giorno”, “una citazione ogni giorno”? E’, senza mezzi termini, l’insopprimibile necessità dell’essere umano di condividere le proprie esperienze, la propria cultura.
E ANCHE OGGI SI AIUTA DOMANI
Certo è che poco si è fatto, si sta facendo e sembra si abbia intenzione di fare, da parte delle istituzioni, per salvaguardare questa necessità, questa fame, anzi di assecondarla; e, in secondo luogo ma non meno importante, di prevedere una qualunque forma assistenziale per chi l’arte e la cultura la produce giorno per giorno, notte dopo notte, nota dopo nota, lettera dopo lettera.
Osservando il bicchiere mezzo pieno, di buono c’è che stanno venendo alla luce le tante criticità che affliggono un settore (e la sua conseguente filiera) troppo frammentato, esposto a contingenze imprevedibili, non sempre e anzi quasi mai equiparato agli altri settori produttivi, nei quali giusto un gradino un po’ più in alto sta l’Istruzione -ed è alla portata di tutti l’evidenza che anche lì, in Italia, c’è un colabrodo istituzionale-, ma dai quali cultura e immagine, arte e spettacolo, sono neanche le sorelle minori ma un amico di cui ci si vergogna. Da più parti si legge che la produzione cinematografica in Italia non è più industria dalla fine degli anni ’70, facendo coincidere la morte dell’industria propriamente detta con la scomparsa di Pierpaolo Pasolini. Quello dello spettacolo inteso come produzione culturale (musica, film, teatro, concerti, musei) è un asset economico e produttivo importante, ma ancora fin troppo volatile nel suo esser privo di una connotazione economica tale da permettergli di godere, in tempi di criticità quanto in quelli di vacche grasse, di una struttura caratterizzata da un “piano industriale” vero, chiaro e specificamente definito e riconosciuto all’interno del quadro istituzionale e politico nazionale (giusto per sottolineare una prova: il primo assessorato, il primo ministero ad essere “assorbito” con altri, è sempre e comunque quello della cultura e dello spettacolo). Insomma, per semplificare al massimo il senso delle parole di sopra e che seguiranno: così come si è stati pronti a bloccare la cultura, si dovrà, si deve o dovrebbe essere pronti a capire come sostenerla e illustrare come riaprirla.
Per arrivare ad una conclusione che abbia senso, soprattutto che abbia un senso in un luogo specifico come TaxiDrivers, storica e fondamentale rivista indipendente di cinema dal 2006, facciamo una chiosa finale e scendiamo nello specifico. Anzi, proprio nel soggettivo.
Tenendo per buona la ripartenza delle sale tra novembre e dicembre, e l’assoluta vaghezza sulla ripresa teatrale intesa come rappresentazione (che poi: perché le chiese sì e i teatri no? Sono situazioni logistiche similari, e anzi nei secondi l’accesso e il distanziamento sociale oggi così in voga sarebbero molto più controllabili); facendo il segno della croce e prendendo come fatto assodato che i grandi raduni musicali sono un miraggio che si tramuterà in realtà non prima del 2021; consapevoli che per i set cinematografici si sta già programmando una modalità di sicurezza che però viene dal basso -cioè dagli operatori stessi- e non dall’alto -le istituzioni-; e nel silenzio assordante per quanto riguarda i Festival (a quando la possibilità di programmare gli eventi? Che, da non dimenticare anche se in pratica lo fanno tutti, producono pur sempre un indotto, medio o grande che sia) e la possibilità di riprogrammarne la mise en scene; insomma, è certamente sacrosanto considerare -purtroppo qua si parla però di non considerare- chi l’arte la produce, ma chi pensa a chi di arte ne parla? A chi fa della critica una professione, a chi mostra e spiega le strade poco conosciute dei significati nascosti, a chi insomma si pone come tramite tra l’oggetto artistico e la sua utenza?
Nessuno.
MANIFESTO, QUINDI SONO
Si sta compilando in questi giorni un importantissimo “Manifesto delle lavoratrici e dei lavoratori della cultura, dello spettacolo e dei beni culturali”, un altro fondamentale documento che mostra, se ce ne fosse bisogno, come ognuno deve fare per sé per avere le giuste tutele. Che inizia cosi, testualmente: “Siamo le lavoratrici e i lavoratori della cultura, dello spettacolo e dei beni culturali. Siamo, oggi, quasi 1,5 milioni di persone, il 6,1% del totale degli occupati in Italia. Siamo professionisti delle arti performative, del cinema, della musica, siamo attrici, ballerini, cantanti, presentatori, registi sceneggiatori, segretari di redazione, tecnici della luce e del suono, distributori, autrici, operatori, montatori, custodi, facchini, amministratori, direttori tecnici e artistici, addette stampa, costumiste, macchiniste, truccatori e scenografi, tanti aspiranti professionisti e soggetti in formazione. Siamo le lavoratrici e i lavoratori intermittenti, perché il lavoro artistico e creativo è intermittente per natura: un artista o un tecnico possono lavorare anche solo per un giorno e restare inoccupati per mesi, ma devono tuttavia garantire continuità alla disponibilità operativa, alla formazione, all’aggiornamento, alla contaminazione. Siamo un settore in costante regime di emergenza e precarietà, così come la sanità, così come la sanità, l’istruzione, il sistema carcerario e l’accoglienza. E così, in un’emergenza come quella del Coronavirus, siamo i primi a saltare, i primi a chiudere, i primi a sopravvivere anziché vivere: siamo e restiamo tra gli ultimi. Siamo e siamo stati fino ad oggi cittadini di serie B, discriminati, marginalizzati, strumentalizzati, solo il 4% ha un contratto indeterminato, mentre la metà dei lavoratori dello spettacolo ha un’entrata annua che non supera i 5.000 € ”.
Lasciamo stare che nel novero non sono inclusi i critici, che qui nel nostro piccolo giornale indipendente sono pressoché la maggioranza, quei critici che come si precisava sopra sono spesso il solo trait d’union tra l’opera e il pubblico e che lo stesso pubblico lo guidano (e questo nel silenzio assordante di chi il settore dovrebbe rappresentarlo, tra sindacati e sottogruppi sindacali), e che in condizioni “normali” sono malvisti come una piaga, in un’attualità dove il web ha prodotto così tanti critici da non averne più nessuno: ma questo manifesto rende chiaro, anche troppo, la precarietà esistenziale di gente senza la quale l’espressione culturale non riuscirebbe ad arrivare alla maggioranza, non arriverebbe a tutte le persone a cui arriva, non sarebbe insomma quella che è e utilizzabile per come viene utilizzata.
Non aspettiamo che ci sia chi porta avanti le nostre battaglie per noi. Non aspettiamo i sindacati (dello spettacolo? ripetiamolo: silenti e inerti), mostriamo la nostra presenza e la nostra preziosità. La nostra imprescindibilità.
Questa è tipicamente un’emergenza nell’emergenza. L’arte è connaturata all’espressione individuale, alla crescita psicologica, al progresso. Non è, e va gridato forte, qualcosa di cui vergognarsi: non è un passatempo e non è un hobby, anche se pure chi la fa non viene mai assimilato come forza lavoro al meccanico o al cuoco. L’arte è vita, e dall’arte deve passare la rinascita. Salvaguardarne la libera circolazione ed espressione vuol dire salvaguardare la crescita e la ripresa di un Paese che in questa situazione emergenziale potrebbe vedere la possibilità di riequilibrare le forze e di riordinare le sue priorità. Curare e assistere i lavoratori e le lavoratrici della cultura e dello spettacolo vuol dire quindi stare vicino a chi con il proprio lavoro fa sì che in momenti di necessità come quello che stiamo vivendo nessuno si senta davvero solo, nessuno rimanga da parte, e tutti possano avere un appiglio o un porto sicuro a cui fare riferimento anche in caso di isolamento.
Allo stato dei fatti, chi crea la cultura è invisibile. E se l’essenziale è invisibile agli occhi… beh, ecco che allora i conti tornano. Sempre.