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Underground

Going all the way, l’esordio di Mark Pellington tratto dal romanzo di Dan Wakefield

Scandito da una colonna sonora mista a base di 50's rock, blues e jazz, il film mette a fuoco il tema dell'America delle piccole comunità come luogo privilegiato della doppiezza e del mistero e si si apre a una curiosa atmosfera allucinata

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Difficile dire se e in che misura fosse stato possibile ai tempi (1997) intuire la piega inquietante – per dire avvincente – che avrebbe preso la prima parte della carriera registica di un autore non molto masticato dal grande pubblico come Mark Pellington (alludiamo agli esiti, tutt’altro che scontati, di pellicole come “Arlington Road“, 1999 e “The mothman prophecies“, 2002), avendo posato lo sguardo su “Going all the way”/”Vivere fino in fondo”, esordio ispirato dall’omonimo romanzo (1970) di Dan Wakefield (anche curatore dell’adattamento per lo schermo). Qualche indizio lo si può scovare, volendo, ora, facendo minimo e saggio uso del senno di poi e nonostante ci si trovi comunque dalle parti di una storia di formazione che pone al centro la Gioventù che tenta di riacciuffare ciò che la Guerra – nel caso quella di Corea, l’anno in questione è il 1954 – le ha sottratto, per innescare un nuovo abbrivio e ritemprare la fiducia nel futuro, sullo sfondo dell’America eisenhoweriana e tardo maccartista, ottimista e ipocrita, vitale ma a grattar bene spietata, un piede dentro il trita-tutto consumista e l’altro tremolante nella scomoda staffa dell’ossessivo pericolo rosso.

Reintegrarsi, in specie in provincia – Indianapolis è la cornice, con i suoi angoli suburbani punteggiati di ville silenziose e praticelli ben pareggiati, nonché città madre dello stesso Wakefield – può prevedere un surplus di incognite. Tom Gunner Casselman (un aitante e gradasso Affleck, già fermamente assicurato alle cime che lo avrebbero issato, almeno sul versante della recitazione, verso le vette conquistate in altri tempi, con altre storie, da altri Big Jim born-in-the-USA), ex atleta/volto popolare del liceo, piacione da scopate occasionali, tra slanci legati all’arte, propositi più impegnativi ma non meno fumosi proiettati sull’orizzonte mitico della New York del Greenwich Village vista come meta di tutte le ambizioni e incarnazione di tutti i sogni che valgono la pena di essere sognati, traccheggia assieme a un ex commilitone (anche se lui il fronte se lo è sciroppato davvero mentre questi è stato “solo a Kansas City”, tra scartoffie e propaganda), compagno del suddetto liceo, William Sonny Burns, alias Dado (Davies, un attore che ha fatto dell’impaccio il proprio tratto distintivo al punto da rimanere spesso e volentieri – per sempre ? – avviluppato entro i suoi stessi vezzi espressivi e insistiti manierismi), vampirizzato da una famiglia da cartolina caramellata dell’orrore: padre occhialuto e inerte, tutt’uno col suo completo marrone; madre querula e ossessiva, dolciastra quanto sessuofoba e bigotta (Clayburgh tra overdose glicemica e ricadute aromatizzate all’aceto), degna contraltare, come vuole l’America schematicamente doubleface di questo primo Pellington, di quella di Gunner, al contrario esuberante e civetta, artatamente sciroccata, un po’ Monroe un po’ Hayworth ma pronta a sgranare ad alta voce buona parte del più ovvio dei rosari antisemiti (Warren, fondoschiena strizzato in grati tubini, drink in mano e sorrisone scopri-gengive di ordinanza). Dado che ha generiche velleità di fotografo e una fissa – ovvi i motivi – per il sesso (“Mi sa che anche l’arte porta alla fica”), è di fondo insicuro, incline alle ansie interiori, oggetto delle saltuarie attenzioni dell’eterna fidanzata/papabile promessa sposa Buddy/Locane, che tra un tira-e-molla e l’altro trova il modo di mollarlo, affettuosa e comprensiva da good girl qual è ma senza il minimo rimpianto. Così, i giorni passano, le cose non ingranano e vista da Indianapolis New York pare non solo un altro mondo ma pure sempre più irraggiungibile.

Scandito da una colonna sonora mista a base di 50’s rock, blues e jazz, elementare nell’impianto e negli snodi drammaturgici principali – Gunner mena sempre la danza che Sonny si limita a scimmiottare o a rincorrere; Sonny viene insidiato da una specie di miracolato dalla religione impostogli dalla madre, per vivere poi una disastrosa notte con la ragazza-dei-sogni (McGowan in versione femme fatale) che lo induce a commettere uno sproposito; Gunner passa da un’ispirazione all’altra, da una donna all’altra (una è la sempre croccante Weisz) senza alcun costrutto; entrambi infine eleggeranno a terra promessa la Grande Mela, come favoleggia da sempre (e respira nel romanzo di provenienza come sotteso controcanto) l’ansia di evasione tipica del provinciale saldata qui ai primissimi effluvi di una di là da venire controcultura – il film sfodera qualche battuta divertente, mette a fuoco il tema dell’America delle piccole comunità come luogo privilegiato della doppiezza e del mistero e, dribblando una qual staticità della messinscena, si apre a una curiosa atmosfera allucinata che a tratti contrasta e incrina la crosta formale simil Rockwell peraltro citata/parodiata dallo stesso Pellington sin dai titoli di testa. Proprio alcuni momenti stranianti (primi piani in specie di profilo illuminati da luci violente o da riflessi al neon; veloci frammentazioni dell’inquadratura; indugi sugli oggetti comuni al modo di evidenziarne la sospetta persistenza) preludono – anche se sempre retrospettivamente parlando – alle stasi angoscianti, alle sospensioni al limite del morboso, a una più controllata capacità di trasmettere la spiacevole sensazione per cui la realtà possa perdere i suoi connotati abituali da un momento all’altro, delle opere più conosciute. Ed è questo, forse, il lascito davvero interessante di un episodio minore il quale, pur essendo un primo passo e muovendosi perlopiù secondo le cadenze della commedia, si conferma percorso da una più densa corrente sotterranea, spinta creativa una volta tanto destinata a emergere in superficie.

Alessandro D’Orazio

  • Anno: 1997
  • Durata: 103'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Mark Pellington

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