I racconti di Canterbury, un film del 1972 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, tratto dall’omonima opera di Geoffrey Chaucer. È l’episodio centrale della cosiddetta “trilogia della vita” di Pasolini, segue Il Decameron (1971) e precede Il fiore delle Mille e una notte (1974). In Italia, come il capitolo precedente, il film venne ampiamente censurato e in un certo senso lo è anche oggi, mentre invece a Berlino la pellicola nel ’72 vinse l’Orso d’oro come miglior film. Come già fatto ne Il Decameron, Pier Paolo Pasolini per il suo film prende dall’opera di Chaucer (interpretato qui da lui stesso) otto racconti, rielaborandoli in chiave comica o grottesca e altri lasciandoli così come sono. Tutte le novelle sono collegate al prologo nel quale Geoffrey Chaucer decide di partire con dei pellegrini per Canterbury, invitandoli a raccontare delle storie.
I racconti di Canterbury, girato da settembre a novembre 1971, fu presentato il 2 Luglio 1972 al XXIII festival di Berlino in una versione di lavorazione della durata di due ore e venti minuti. Il film viene proiettato per la prima volta a Benevento il 2 Settembre 1972, ma con il divieto ai minori di 18 anni, viste le molte scene forti di cui è permeato. Dopo tre giorni arrivano le prime denunce per oscenità, ma il tribunale beneventano (le denunce scattarono nella città dove si tenne la “prima”) non riscontra i reati contestati e archivia il procedimento. In un secondo momento, però, la stessa Procura cambia idea, sequestra il film e rinvia a giudizio il regista Pasolini, il produttore Alberto Grimaldi e l’esercente locale proprietario del cinema dove era avvenuta la proiezione. Gli imputati sono assolti, sentenza confermata anche in Appello e Cassazione e, nel dicembre del 1973, la pellicola torna in libertà in tutta Italia.
Con Hugh Griffith, Laura Betti, Ninetto Davoli, Franco Citti, Josephine Chaplin, Pier Paolo Pasolini, Alan Webb, Vernon Dobtcheff.
Sinossi
Pellegrini in viaggio per Canterbury si raccontano novelle: uno studente seduce la moglie di un superstizioso legnaiolo; due amici si vendicano di un mugnaio disonesto; le disavventure del candido e gaio Perkin; una donna insaziabile “consuma” cinque mariti; un maturo scapolo sposa una moglie troppo giovane; la discesa agli inferi di un frate; gli insuccessi di un altro frate a cui nessuno vuole comprare le reliquie.
Un tripudio di natura per un’esaltazione della corporeità e della sessualità. È la cifra stilistica che caratterizza I racconti di Canterbury, il secondo film della Trilogia della vita firmata da Pier Paolo Pasolini nei primi anni Settanta. Se per la prima opera l’ispirazione proveniva dal Decameron di Giovanni Boccaccio e per la terza e ultima dalle novelle arabe raccolte ne Il fiore delle Mille e una notte, il lungometraggio centrale della trilogia attinge direttamente dalla penna del poeta inglese Geoffrey Chaucer per adattare al grande schermo quello che è considerato il suo capolavoro, una raccolta di racconti pervenuta incompleta, scritta dal letterato sul finire del 1300.
I racconti di Canterbury pasoliniani, premiati con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, mantengono la struttura a episodi del modello letterario ma, a differenza di quest’ultimo, i diversi racconti non sono intervallati dalle voci dei narratori (i pellegrini diretti alla tomba di san Tommaso Becket a Canterbury) e l’unica cornice mantenuta dal regista è incarnata dalla presenza di Chaucer (interpretato dallo stesso Pasolini) che, all’inizio del film, si unisce idealmente ai pellegrini e in seguito è colto all’interno di uno studio mentre scrive i racconti. L’assenza di intermezzi tra un episodio e l’altro rende i passaggi lievemente artificiosi, ma il regista ha preferito questa soluzione stilistica, come attestano i tagli apportati alla prima e più lunga versione del film.
Pasolini sceglie nove delle ventidue novelle firmate da Chaucer, per officiare una celebrazione della vita nelle sue forme più impetuose e istintuali. Così come nelle altre due opere della trilogia, i temi rappresentati, più che trattati, sono il sesso, l’amore e la morte. Quest’ultima incombe, con la sua aura sinistra, su quasi tutti gli episodi del film e, nonostante sia spesso cruenta (un uomo accusato di sodomia bruciato vivo su pubblica piazza, un altro impiccato), impersonata dal diavolo (incarnato da un misterioso Franco Citti nell’episodio più surreale e affascinante dell’intero film) o raffigurata in maniera irriverente all’Inferno, appare anch’essa del tutto naturale, genuina, pronta a lasciare spazio ad altra vita e nuovi godimenti (come ben rappresentato nel Racconto della Donna di Bath, dove il funerale del marito è subito seguito dal nuovo matrimonio della vedova, tratteggiato in chiave macchiettistica).
Molto probabilmente la naturalezza estrema della morte è diretta conseguenza del trionfo della sessualità, autentica protagonista di questa pellicola, che del corpo e delle sue vitalistiche esibizioni tesse un vero e proprio elogio. Per il regista, non c’è peccato nel sesso, né senso di colpa, ma solo sano godimento. Questa apologia della corporeità ben si adatta alla scelta di un’ambientazione storica in cui le sofisticate e complicanti sovrastrutture della moderna società dei consumi non trovano spazio. Il Medioevo chauceriano, valorizzato dall’accurata e splendida scenografia di Dante Ferretti e dalle musiche curate da Ennio Morricone (melodiosi e semplici richiami a canzoni popolari inglesi medievali e rinascimentali), è visto da Pasolini come un’epoca che esalta la genuina naturalezza e vitalità del corpo e dei suoi bisogni, non conoscendo i falsi pudori e il viscido moralismo dei benpensanti borghesi. Gli eroi pasoliniani sono contadini, artigiani, gente semplice, umile, magari anche rozza ma autentica, incarnazione di un erotismo potente e liberato. La presenza di tali personaggi allontana da questo film i toni gravi e nichilisti delle opere precedenti e permea I racconti di Canterbury di un’ironia (come nell’omaggio a Charlie Chaplin nel simpatico personaggio interpretato da Ninetto Davoli) e di una leggerezza che costituiscono le cifre distintive anche degli altri due capitoli della trilogia.
Del resto, come scrive un soddisfatto Chaucer alla fine della pellicola, le novelle sono state raccontate solo per il piacere di raccontarle. Ciò non impedisce al regista di imbastire un richiamo alla critica sociale di cui sono intessuti tutti i suoi lungometraggi e che qui prende le forme della denuncia dell’avarizia che corrompe le coscienze, anche quelle di chi (la Chiesa cattolica) vende promesse di liberazione dal peccato (la pratica delle indulgenze).