Intervalli, finestre e salti nel vuoto più buio: Windows di Peter Greenaway
Con Windows Greenaway si fa precursore del migliore detournament possibile rispetto a quella raccolta dati che oggi tenta di gestire capillarmente ogni nostra mossa. Mentre la natura, verde, lieta e assolata, fuori dalle finestre che vediamo re-inquadrate, è indifferente alle vicende del genere umano
«Gli intervalli erano meglio di un’annunciatrice o di un annunciatore, erano un annuncio. […] c’era anche una sospensione, la paura e il desiderio che durasse troppo. […] quello che dominava era appunto il gioco del desiderio, più a nudo che in altri casi. Era molto forte – perché totalitario, senza concorrenza»
Ma quanto dura quest’intervallo?
«Con l’intervallo ci troviamo di fronte a una cosa che da una parte è frantumata, spezzettata, rimontata, dall’altra è fin dall’inizio un detrito. Potenzialmente l’intervallo è infinito, è un frammento di infinito. In questo senso c’è la doppia valenza di quello che resta e di quello che è stato costruito, che immediatamente si auto-rubrica in uno spazio senza illusioni. Dall’altra parte è invece costruito come tale, uno spazio illuso»
Nel catalogo di un progetto espositivo espanso (Il mondo, infine) che già parlava (anche) di questi giorni, enrico ghezzi interviene a proposito degli intervalli televisivi, le sue Schegge, e oltre. Ma quel che scrive si può benissimo estendere come chiave di lettura (di visione?) del presente. Gli intervalli, gli intermezzi, sono anche quelli in cui in questi giorni di stremati atti di resistenza alle parole d’ordine, guardi fuori, dalla tua finestra, punto di “inquadramento” e di osservazione che qualcuno (Eugen Fink ad esempio) aveva associato già quasi cento anni fa al fare o evocare immagini, e poi in tanti, da Hitchcock a Michael Snow fino ad uno straordinario sperimentatore italiano, Piero Bargellini («Per me affacciarsi alla finestra e osservare fuori è come vedere un fiilm. Filmare è un modo per prolungare la condizione di spettatore ed estraniarla») hanno esplorato cinematograficamente per vie diverse. Come usarle queste finestre, se non come rampa di lancio? Dello sguardo, se non del corpo.
Intervalssi chiama uno dei primi lavori di Peter Greenaway, realizzato nel 1969, registrando e rimontando il via vai di persone tra le vie di Venezia, un andirivieni di corpi in movimento con insegne pubblicitarie come fondale all’azione. Non l’avrei mai pensato prima di questi giorni, di ritrovarmi a rivedere e ripensare Greenaway. Ma forse c’è qualcosa nei suoi primi lavori che lavora sotterraneamente e dialoga con il presente, facendoci occupare diversamente della situazione in cui ci troviamo impigliati, incastrati, e delle soluzioni per uscirne, al meglio. Greenaway nei primi anni lavora da solo, in isolamento, tra gli ambienti domestici, come farà ad esempio per tutta la vita Stan Brakhage e come fanno da anni Paolo Gioli o Jean Luc Godard.
Nel 1974, Greenaway realizza Windows, un breve film la cui urgenza di partenza, secondo il BFI, sarebbe stato l’interessamento verso la situazione politica nel Sud Africa durante l’apartheid e in particolare alla frequenza con cui i prigionieri politici morissero per defenestrazione. Impossibilitato a fare un documentario su quegli eventi, trasformò la situazione in una sorta di mockumentary girato nella sua casa di campagna inglese. Mentre vediamo una serie di vedute verso l’esterno, attraverso finestre, una voce fuori campo racconta con freddezza di trentasette morti più o meno accidentali, per caduta dalla finestra di casa, in una non ben definita contea inglese di Wardour, nel 1973.
Con uno humour nero tipico del contesto inglese, quello che in quegli anni portavano a esiti esilaranti i Monty Python, Windows enumera con voce impassibile l’elenco delle morti, precisandone anche progressivamente le circostanze, mentre un clavicembalo barocco allieta la faccenda e una serie di liete e quasi bucoliche visioni attraverso le aperture di casa si giustappongono alle statistiche funerarie. Tra fatalità, infanticidi, scelte dettate dall’amore, dall’alcool o dalla disperazione, generose spinte omicide, scommesse e, infine, favolosi esperimenti di novelli Icaro, con WindowsGreenaway si fa precursore del migliore detournament possibile rispetto a quella raccolta dati che oggi tenta di gestire capillarmente ogni nostra mossa. Mentre la natura, verde, lieta e assolata, fuori dalle finestre che vediamo re-inquadrate, è indifferente alle vicende del genere umano.
La voice-over enumera con precisa tassonomia i dati in possesso, mentre il tempo fuori scorre e la giustapposizione paradossale tra immagini, testo e musica è una contaminazione atipica di materiali eterogenei che diventerà marca stilistica sempre più evidente nei lavori successivi del regista inglese. Una cifra tendente all’enciclopedismo, alla vertigine delle liste, come già presente in un altro 16mm di quegli anni e altrettanto in tema con la nostra attuale reclusione (H is for House, 1976). Una struttura compositiva poi sempre più “complicata” nei film successivi, sistemi formali rigorosamente costruiti, con un’attenzione alla struttura e al “quadro” debitrice della sua formazione da pittore. Un sistema linguistico ben organizzato, grandi archivi dentro i quali inoltrarsi e perdersi (come nell’affollarsi odierno di piattaforme e database dentro cui lanciarsi per trattenersi e intrattenersi, fino alla fine del mondo), come sarà nel primo lungometraggio, The Falls (Le cadute), che esalta l’intuizione di partenza di Windows arrivando, con maniacalità enciclopedica a rintracciare novantadue storie legate al desiderio (caduto) di volare.
«Il dottore era stupefatto. Mi disse: ‘Doveva essere proprio ubriaco per rimanere così rilassato mentre cadeva dal quarto piano’. Se fossi stato appena un po’ più sobrio, probabilmente oggi non sarei qui: avrei teso tutto il corpo per la paura e quindi mi sarei fracassato.»
Di altri tuffi o di (tentati) salti ce ne sono stati diversi, nel passato, atti di disubbedienza contro le convenzioni del corpo e quelle della natura. Dai Tentativi di volo di Gino De Dominicis (1969) a quello più o meno accidentale di Pinelli nello stesso anno, a Carmelo Bene che in Nostra Signora dei Turchi, si lascia cadere languidamente, keatonianamente, dal balcone, agli struggenti tentativi di Bas Jan Ader, sino al celebre precedente di Yves Klein che nel 1960 saltò nove volte nel vuoto davanti ai fotografi parigini. Poi nello stesso 1973 cade dal balcone anche Robert Wyatt, ben “rilassato”, come racconterà, mentre tentava, ubriaco, di abbandonare furtivamente una festa uscendo dalla finestra del solaio per poi far la sorpresa di riapparire dalla porta d’ingresso (lo racconta bene Gianni Lucini)
E ricordiamocelo, anche ad uso dei sottovalutatori della situazione, come ulteriore consiglio: nel finale de Il ventre dell’architetto, il film che Greenaway ha girato quasi interamente in quella Roma monumentale oggi deserta, Kracklite, il protagonista defraudato del suo ruolo e aggirato dal sistema di potere che doveva servirlo e invece di lui si è servito, si lancia dal nostro altare della patria.
«Verso mezzanotte l’anarchico preso da raptus si è buttato dalla finestra sfracellandosi al suolo. Ora, che cos’è il “raptus”? È una forma esasperata di angoscia suicida che afferra individui anche psicologicamente sani, se in loro è provocata un’ansia violenta, un’angoscia disperata. Giusto?» (Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico)
Se l’arte può essere ancora un atto di resistenza e non un esercizio di retorica, né una stampella d’utilità sociale o un conciliante accompagnamento alla serata sul divano, con meno retorica di bandiera e più vitale irriverenza, sarebbe tempo di un remake in grande stile, vista la mole di casi che sta sopraggiungendo in questi giorni, tra omicidi domestici, suicidi per senso di colpa, per paura del nemico invisibile o per invivibilità dell’inferno domestico. Nessuno, finora, secondo la stampa, si è però deciso, dichiaratamente, novello Icaro, a lanciarsi, in volo, nella vita, spinto da una situazione di necessità, ripensando magari al gesto compiuto dieci anni fa da Mario Monicelli, stanco di una “penisola alla deriva”, per disperata colorata fuga dalla realtà, come in Despairdi Alex Prager, o ri-ascoltando Defenestrazioni di Teho Teardo e Blixa Bargeld.
«Tutti noi vivremo per sempre/ Sempre e in eterno/Potremo volare/ Berremo miele, vino in miele/Ambrosia/ A colazione mangeremo nuvole/ Dormiremo a fondo sulla luna/ Notte per notte/ Qualche volta un po’più a lungo, e durante il giorno».
Se sul “lasciarsi andare” (come cosa felice che cade) ci sarebbe ancora molto da dire (suggeriamo l’eccezionale saggio di Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere) e se, tra metalinguismo e pulsione scopica, sul carattere di finestra dello schermo, di qualsiasi schermo, o della sua funzione schermante, se ne discute da tempo (vedi Claudio Rozzoni), tuffarci dentro uno schermo a tutt’oggi ci risulta complicatissimo, anche con eventuali strumenti di realtà aumentata, mentre tuffarci dentro una finestra è sempre stato possibile e così sarà sempre.
«Forse perché non sono mai riuscito a nuotare ho deciso di imparare a volare. Da tre anni infatti ripeto questo esercizio tutti i giorni, probabilmente non riuscirò mai a volare ma se farò ripetere questo esercizio anche ai miei figli ed ai figli dei miei figli e loro ai propri figli forse un giorno un mio discendente improvvisamente si troverà a saper volare» (G.De Dominicis)
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