La lunga notte del ’43 è un film del 1960 diretto dal regista italiano esordiente Florestano Vancini, liberamente tratto dal racconto Una notte del ’43 della raccolta Cinque storie ferraresi, libro con il quale Giorgio Bassani vinse il Premio Strega nel 1956. La lunga notte del ’43 anticiperà anche il filone dei film denuncia/inchiesta degli anni ’60 e ’70 di cui lo stesso Vancini sarà protagonista con La banda Casaroli, La violenza: quinto potere, Il delitto Matteotti, Bronte – Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato e con il televisivo La piovra 2. Sceneggiato da Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini e Florestano Vancini, con la fotografia di Carlo Di Palma, il montaggio di Nino Baragli e le musiche di Carlo Rustichelli, La lunga notte del ’43 è interpretato da Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno, Gino Cervi, Belinda Lee, Andrea Checci.
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La lunga notte del ’43 – RaiPlay
Sinossi
Siamo nell’autunno del 1943, a Ferrara. Il fascista Aretusi fa assassinare il moderato console Bolognesi, accusa gli antifascisti e conduce poi la rappresaglia: undici fucilati sotto la casa del farmacista Barillari, tra cui il padre dell’amante di Anna, moglie di Barillari. Dopo l’eccidio, Anna lascia Ferrara e il suo amante se ne va in Svizzera. Nell’estate del 1960 quest’ultimo torna in città e incontra Aretusi, che gli fa i suoi complimenti; i due si stringono la mano.
Florestanto Vancini era stato aiuto regista di Valerio Zurlini per il suo quasi contemporaneo Estate violenta. Non stupisce dunque che anche per il proprio debutto sul grande schermo si sia ispirato a sua volta ai fatti della Resistenza, che erano tematiche ancora “calde” e sentite, e soprattutto retaggio di esperienze dirette di vita vissuta, prendendo però spunto da una delle Cinque Storie ferraresi di Bassani, e più esattamente dal racconto Una notte del ‘43.
Premiata a Venezia come migliore “opera prima”, la pellicola ha davvero ottime credenziali che le consentono di reggere benissimo l’usura del tempo: densa e significativa nei contenuti, sia pure con qualche piccolo squilibrio nel suo andamento generale per evidente “eccesso di cuore” e di inesperienza (comunque dei piccolissimi nei facilmente perdonabili), con la sua fortissima carica polemica e la particolare “ottica” del racconto, ci costringe – oggi più che mai – a una spietata riflessione critica che non ci può certo lasciare indifferenti, a conferma del giusto interesse che fu riservato a Vancini, salutato, grazie a questo film, come uno dei più interessanti e quotati registi esordienti del periodo.
Un progetto ambizioso
Certamente un ambizioso progetto il suo, che in tempi ancora fortemente “celebrativi” come quelli in cui fu pensato e realizzato, proprio per la particolare scelta tematica, che si può sintetizzare in una rammaricata “sfiducia del presente” contrapposta all’impegno appassionato di un “esaltante passato antifascista” che avrebbe dovuto far immaginare ben più concreti sviluppi di tenuta e di coerenza di quanto non sia poi davvero accaduto nella realtà, gli ha permesso di inserirsi di prepotenza in un filone di coraggiose opere (se non proprio in controtendenza, per lo meno capaci di lasciare da parte la “retorica” dell’eroismo a tutti i costi) che in quel periodo tentarono di affrontare in maniera più problematica proprio gli anni della disfatta e delle inevitabili “scelte”, fra lutti, lacerazioni e riflessioni consapevoli (oltre al già citato Estate violenta, anche Un giorno da leoni di Loy, Tiro al piccione di Montaldo, Il carro armato dell’8 settembre di Gianni Puccini e Tutti a casa di Comencini, fra tutti forse il risultato più compiuto).
La lunga notte del ’43, sceneggiato dal regista insieme a Pier Paolo Pasolini ed Ennio De Concini, racconta del clima terribile creatosi a Ferrara, come in tutto il nord Italia, dopo l’8 Settembre 1943. Gli interpreti sono all’altezza dei rispettivi ruoli, con una menzione particolare per Cervi e Salerno, che sembra il James Stewart de La finestra sul cortile in versione tragica. Belinda Lee è molto bella, ma doppiata dalla solita voce standardizzata che abbiamo sentito centinaia di volte nei film degli anni Cinquanta e Sessanta.
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