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Su Netflix Carrie di Kimberly Pierce, il remake del capolavoro di Brian De Palma

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Oppressa da una madre ossessionata dal fanatismo religioso, Carrie è una ragazza fragile e insicura; emarginata a scuola per la sua eccessiva timidezza, vive le sue giornate appartata dagli altri e poco partecipe di ciò che le accade, anche nella sua fase di evoluzione adolescenziale. Totalmente inconsapevole di sé e dei suoi cambiamenti, viene spesso presa di mira dalle sue compagne di classe e un giorno, derisa e umiliata, un suo video finisce per essere postato sui social media. Carrie, sconvolta, viene accolta e aiutata dalla sua insegnante di ginnastica. Intanto  la bulla  Chris Hargensen medita una vendetta per la punizione inflittale dalla scuola. Carrie, che vorrebbe soltanto essere una ragazza come le altre, possiede in realtà delle capacità particolari che imparerà ad usare col tempo.  Fino al drammatico epilogo.

Il paragone è inevitabile ma sicuramente il confronto non regge

Difficile paragonare questo nuovo adattamento cinematografico di Carrie con il cult di  Brian De Palma  del 1976 (dal romanzo di Stephen King); il paragone è inevitabile ma sicuramente il confronto non regge.

Lodevole il tipo di approccio deciso da Kimberly Pierce, uno sguardo “attuale”, non totalmente legato all’idea dell’horror di appartenenza. Kimberly Peirce non proviene infatti dal genere e ci aveva piacevolmente stupiti con l’ottimo Boys Don’t Cry del 1999 (elogio dell’affermazione della propria identità) in cui Hilary Swank vinse il suo primo Oscar. Carrie è invece un  horror, anche se pone al centro ancora una volta una personalità da definire, a disagio con se stessa e gli altri, senza dimensione familiare  e vittima del Pregiudizio. Non è forte Carrie, non ha idee chiare, non ha consapevolezza di sé, ma c’è di nuovo la cattiveria che la circonda, il bullismo e una società ostile alla diversità. La sua Carrie White non offre però nulla di nuovo alla versione cult di Sissi Spacek, ma può confrontarsi con le moderne generazioni e con i problemi di oggi legati alluso sconsiderato dei social e a uno spesso distorto culto della popolarità nelle scuole.

La regista si approccia al film con “eccessivo” rispetto verso il romanzo soprattutto e non riesce a fornire elementi davvero originali

C’è sicuramente anche l’idea di una più moderna concezione del rapporto allievo-insegnante e c’è la solidarietà che può scaturire dalla messa in discussione di alcuni stereotipi sociali: ma la regista si approccia al film con “eccessivo” rispetto forse verso il romanzo soprattutto e non riesce a fornire elementi davvero originali al plot. Resta intatta l’idea forte di base che è solo quella di Stephen King in fondo, quella del Male insito nelle persone, della cattiveria, del rapporto odio-amore genitoriale e della società umana, governata dalla legge del più forte.

La giovane Chloë Grace Moretz  (Diario di una schiappa e Hugo Cabret) si mostra capace di incarnare la fragilità di Carrie ma non è abbastanza credibile poi nella parte più dark del film. Sissy Spacek al ruolo di Carrie aveva inoltre saputo dare una sua impronta identificativa davvero insostituibile. Julianne Moore sempre brava e molto realistica nel suo ruolo di madre folle e disperata, senza possedere però il delirio di Piper Laurie nel film di De Palma. Tutto sommato, comunque, un discreto risultato per un film che si apprestava a superare un test molto difficile.

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