Becky (Laysla De Oliveira) è incinta di 6 mesi, ma ha deciso di dare alla luce la sua bambina a San Diego, lontana dalla sua vecchia vita e dal compagno Travis (Harrison Gilbertson). Ad accompagnarla nel viaggio in macchina, e in tale non facile scelta, c’è il fratello Cal (Avery Whitted), che ama la sorella più di ogni cosa al mondo e sarebbe disposto a tutto pur di renderla felice. Anche ad addentrarsi in un campo di erba altissima, sotto il sole cocente, in soccorso di un bambino che sembra essersi perso al suo interno.
Stephen King e il potere del cinema quale mezzo per rendere l’horror
Il punto di partenza in opere come questa è fondamentale, e avere Stephen King quale fonte di ispirazione lo è ancora di più. Ma non lasciamoci ingannare dall’idea che il gioco sia presto fatto, anzi. La faccenda è ben più complessa, perché fare paragoni con un Maestro del genere spesso non porta a nulla di buono. Si commettono errori, si pecca di superbia, si tenta di superare qualcosa che magari in origine è perfetto o quasi.
L’intelligenza (e la forza) di opere come Nell’erba alta è testimoniata dalla ferma consapevolezza di quale sia il mezzo di espressione utilizzato. In questo caso il cinema. Che è ben diverso dal romanzo e dalla parola scritta. Per cui è di vitale importanza sapere con cosa si ha a che fare e saperne anche sfruttare al massimo le naturali potenzialità.
Ecco allora che il film di Vincenzo Natali, noto per altri lavori alquanto particolari quali Cube – Il cubo e Splice, fa propria tale lezione e gioca con tutti i clichè dell’horror cinematografico, facendo leva su determinati elementi piuttosto che su altri e puntando soprattutto all’effetto psicologico più che a quello visivo, che comunque non manca.
L’erba alta come elemento naturale e sovrannaturale al tempo stesso
Complice dell’ottima riuscita è senza alcun dubbio l’erba alta del titolo, impedimento naturale pennellato però di sovrannaturale, al quale ben presto tutti guardiamo – noi, spettatori, e loro, i protagonisti – con diffidenza, angoscia, terrore.
Ad ampliare simili sensazioni il fatto di ritrovarsi divisi sin da subito, soli a fronteggiare un nemico decisamente inaspettato e probabilmente più forte. Se non che, talvolta, questi si identifica con una sorta di alter ego di ciascuno dei personaggi in gioco, come a suggerire che stiano combattendo contro loro stessi.
La riflessione su una doppia faccia della medaglia – il Bene e il Male, che caratterizzano alla fine tutti noi e che tendono molto spesso a confondersi e a mescolarsi – potrebbe risultare tanto immediata quanto azzardata, ma non è comunque il punto nevralgico dell’intera operazione.
Tra matrioske e scatole blu, un percorso senza filo di Arianna
Lo sono piuttosto le sensazioni, tangibili e viscerali, che si sprigionano nel corso della narrazione. Grazie a esse, la visione diviene un vero e proprio spasso.
Man mano che ci si addentra nella vicenda e se ne viene sempre più avvolti, cresce la suspense ma anche il desiderio, che si tramuta a un certo punto quasi in un bisogno fisiologico, di capire cosa stia accadendo, di arrivare al cosiddetto bandolo della matassa.
Sì perché Nell’erba alta è una specie di matrioska o di scatola blu (per gli amanti di Lynch), dentro cui ci si perde con una facilità spaventosa, nel disperato tentativo di seguire un filo logico-temporale ma con scarsi, scarsissimi risultati.
Come in tanti horror che si rispettino, la presenza “aliena” la fa da padrona, senza però essere mai invadente, ma lasciando invece che le cose facciano il loro corso, nella buone o nella cattiva sorte. Ogni figura coinvolta sembra allora procedere in un percorso, di presa di coscienza o di responsabilità, di crescita o di maturità. Perché così è la vita, l’esistenza, che si evolve o almeno si muove, compie dei passaggi.
Solo le cose morte restano ferme, proprio come “nell’erba alta”.