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Sole: conversazione con il regista Carlo Sironi

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Sole vive sulla dicotomia narrativa rappresentata da chi, come Fabio e Bianca, vorrebbe avere figli ma non li può avere e da Ermanno e Lena, per i quali  gli stessi costituiscono un peso di cui disfarsi. D’altra parte, nel corso della storia si intuisce che anche i due ragazzi sembrano orfani per aver vissuto in prima persona l’abbandono da parte dei loro genitori.

Si, il film vive un po’ sul dualismo di chi ha come obiettivo quello di riporre il proprio amore nei confronti di un figlio e chi, invece, crede di non essere in grado di farlo, salvo poi scoprire il contrario. Poi Sole a mio avviso va oltre il discorso delle nascite surrogate, interrogandosi sull’amore e sull’innamoramento e, soprattutto, sull’attrazione: dunque, almeno per me, la cosa interessante è che Ermanno e Lena non hanno ricevuto alcun affetto perché, come si intuisce, sono entrambi orfani. Non essendogli mai stato insegnato all’inizio li vediamo incapaci di donarsi all’altro e ancor più di essere madre e padre. A differenza di Bianca e Fabio che non hanno dubbi su questo e che pensano solo a come arrivare a diventarlo.

Per certi versi, Sole diventa addirittura paradigmatico della decadenza di una società a crescita zero. Attraverso una storia personale, è come se tu indagassi le ragioni psicologiche, più che economiche, di uno dei grandi temi del nostro tempo.

Si, perché poi quello che si racconta è una disgregazione delle persone che, oramai, si percepiscono come delle isole, impossibilitate a entrare in contatto con gli altri. Il miracolo descritto nel film è l’ipotizzare che questo possa accadere a due persone non abituate a stare con qualcuno e a prendersi cura di qualcuno. All’improvviso, le contingenze della vita li mettono nella condizione di occuparsi uno dell’altro e poi anche del bambino di Lena.

Per come si sviluppa, la storia finisce per raccontare il desiderio di famiglia. La cercano dapprima la coppia adulta e in seguito anche i due ragazzi.

Si, il bisogno di prendersi cura di qualcuno è quello che poi cambia questi personaggi, facendo in modo che a un certo punto si scateni qualcosa di inaspettato. Si tratta proprio di un’agape, nel senso esatto del termine. A differenza della Bibbia, in cui viene intesa come carità, nel greco antico questa parola significa amore, nel senso di prendersi cura di qualcuno.

Un altro tema del film è quello dell’incomunicabilità: premesso che l’esistenzialismo di Sole ricorda quello presente nelle opere di Antonioni e Kieslowski, c’è da dire che i protagonisti appaiono annichiliti dall’incapacità di riuscire a socializzare con l’altro.

Grazie mille per il complimento, nel senso che hai citato due degli autori che amo di più. In realtà, c’era una cosa che mi premeva riuscire a fare all’inizio del film. Nelle prime sequenze, infatti, i due personaggi non si conoscono, non credono nell’amore e nel rapporto con gli altri, ma soprattutto sono soli. Spesso, quando si mostra la solitudine nel cinema lo si fa in maniera molto metaforica, invece per me si tratta di una condizione molto concreta e reale e che per questo va resa come  tale. Quindi, volevo a tutti i costi iniziare a raccontarla in maniera tangibile rispetto al tempo e all’azione e non risolverla in modo semplice.

Parliamo della forma del film. Per esempio dell’attacco iniziale in cui, senza soluzione di continuità, passiamo dalla scena all’interno della discoteca a quella in cui Ermanno ruba il motorino. Il brusco collegamento tra due momenti diversi e la mancata introduzione dei motivi che spiegano il gesto del ragazzo sono indicativi di come pensiero e azioni siano azzerate. Una dimensione che informa anche i rapporti tra i personaggi. 

L’azzeramento della psicologia è uno dei principi su cui aveva lavorato Robert Bresson. Sole può suggerire delle cose ma diventa più interessante se, invece di far pensare a un collegamento, quella apertura funziona come una vera e propria rottura, perché questo rende la storia più forte dal punto di vista drammaturgico. Questo abbiamo cercato di farlo soprattutto nella prima parte, in cui il linguaggio è molto rarefatto. Così, invece di mostrare l’arrivo dei ragazzi con una panoramica sul luogo dove avverrà il furto, lo spettatore si ritrova di fronte al motorino: cioè al cospetto di un oggetto passivo su cui il personaggio esercita il fine della propria azione, senza che ci sia niente da scoprire o da rendere più accattivante. Siamo solo in attesa che quel gesto così scontato e basico si compia in modo da togliere al momento qualsiasi enfasi psicologica.

L’incontro tra Ermanno e Lena avviene escludendo dal campo visivo la persona che li ha appena fatti conoscere. Attraverso la composizione della scena e i tagli del montaggio, la macchina da presa è sempre rivolta verso di loro. Il fatto di costringerli nello stesso quadro mette ancora più in evidenza la riottosità del loro stare insieme ma lascia anche presagire la centralità e gli umori del loro percorso. 

Si, hai ragione. Per me era necessario far capire che il film, nonostante non conosciamo nulla dei protagonisti, è comunque basato sui due ragazzi, sulle loro reazioni.

Il 4:3, cioè il quadro ridotto rispetto al normale formato cinematografico solitamente usato, svolge sia una funzione estetica, esaltando la valenza pittorica delle composizioni, sia esistenziale, rimandando alla condizione di isolamento e oppressione sperimentata da Ermanno e Lena.

Guarda, molti hanno collegato l’uso del 4:3 come espediente per rendere la condizione claustrofobia dei protagonisti, mentre io l’ho usato innanzitutto perché è il formato che si concentra meglio sui personaggi, quello che li mette al centro del discorso con un linguaggio molto semplice, non ricercato, insomma, classico. Noi abbiamo cercato di renderlo meno estetizzante possibile e, anzi, di usare un modo di inquadrare che si rifacesse agli anni ’50. Poi, in realtà, c’è anche un discorso tecnico: il film è all’85 per cento in interni e in questa condizione usare quel formato è perfetto perché ti concentri sui personaggi e tutte le linee sono pensate a loro favore. La scelta di un quadro così particolare è stata fatta solo per rendere la storia migliore, senza alcun riferimento alla claustrofobica esistenza dei personaggi.

Però, per esempio, in talune scene decidi di stringere il campo attorno al protagonista come a volerne materializzare la solitudine. Mi riferisco, per esempio, all’espediente di racchiuderne la figura all’interno di una doppia cornice: quella del finestrino della macchina, a sua volta contenuta all’interno dell’altra, fornita dallo specchietto retrovisore. Una scelta volta a sottolineare la gabbia esistenziale di cui Ermanno è prigioniero. 

Si, assolutamente. In questo senso, più che la pittura vera e propria a cui mi sono rifatto, pensando alla morbidezza e al tono dei lavori di Gerhard Richter, i riferimenti che ho dato al direttore fotografia (Gergely Poharnok, già curatore di Miele, Alaska ed Euforia, ndr) fanno capo alle opere del fotografo americano Todd Hido, artefice di meravigliosi scatti su stanze spoglie, le cui luci e atmosfere sono state quelle a cui ci siamo ispirati per scenografie e fotografia. Dopodiché ho cercato di guardare meno film possibili. In realtà, gli unici a cui ho pensato un pochino sono quelli giapponesi degli anni ’50, per esempio Kon Ichikawa, dunque a un tipo di cinema molto classico.

Parlavamo del rapporto con la pittura e di una composizione attenta al rapporto tra spazio e luce. In alcuni momenti, e mi riferisco alla seconda parte della storia, Ermanno e Lena sembrano diventare una sorta di Sacra famiglia. La fotografia pare rifarsi a quel tipo di rappresentazione pittorica.

Ti dico che tutto è venuto fuori in modo molto naturale. In tanti hanno notato questi chiaro scuri e mi fa piacere che sia successo perché non sono il frutto di una cosa troppo pensata bensì spontanea.

Utilizzi spesso riprese frontali. In molte di esse vediamo Ermanno con alle spalle una parete vuota, il che fa pensare alla dimensione esistenziale dei personaggi, all’incapacità di riempire quello spazio con altre persone. Esisteva questa volontà?

Non in maniera così esplicita. A me piace il cinema che lascia spazio all’immaginazione dello spettatore e che riesce a far sentire i pensieri dei personaggi, perché la magia del cinema è anche di far percepire ciò che non viene detto, il nascosto della condizione umana. Nel caso di Sole spero si sia avvertito il fatto che c’era qualcosa che i protagonisti non dicevano agli altri e a se sessi e che tramite il cinema viene fuori. Quindi, anche la visualizzazione del tempo, le pareti spoglie e l’attesa a cui sono sottoposti i personaggi sono più il frutto di uno studio emotivo che psicologico.

Spesso riprendi i silenzi dei protagonisti restandogli alle spalle, con le espressioni nascoste che la dicono lunga sulle loro reticenza. Non solo tra di loro ma anche verso lo spettatore

Si, sono d’accordo, anche tra di loro.

Il tormento interiore dei personaggi è reso bene dal contrasto tra luce e buio, come accade nella scena in cui Ermanno dichiara a Lena che si occuperà di lei e della bambina. Se da una parte Sole, ovvero il nome di battesimo della neonata, è fonte di luce all’interno della coppia, dall’altra la sequenza si svolge in un’ambiente immerso nell’oscurità.

È un contrasto voluto, quello del blu delle atmosfere plumbee contrapposto al richiamo del sole che rimanda a qualcosa di caldo e luminoso. Dunque, hai letto nella giusta direzione perché abbiamo cercato molto questi contrasti.

La solitudine dei personaggi è spesso segnalata con espedienti formali, come gli sfondi fuori fuoco, mentre la determinazione della coppia che vuole adottare la bambina di Lena è resa attraverso brusche invasioni di spazio. Ci sono delle scene molto pesanti dal punto di vista psicologico, soprattutto quelle in cui Bianca, di fronte a Lena, si rivolge alla bambina come se lei fosse la sua vera madre.

Si, questa violenza esiste. Soprattutto quando Bianca parla alla bambina come fosse la sua.

In merito a questo tipo di sequenze, ce ne sono molte in cui è l’intensità della drammaturgia psicologica a sostituire la mancanza d’azione da parte dei personaggi. 

È come ti dicevo prima, e cioè il tentativo di far percepire i pensieri dei personaggi senza citarli esplicitamente. Penso per esempio alle difficoltà di allattare da parte di Lena, al giudizio di Ermanno nei confronti di Fabio e Bianca, quando quest’ultima gli parla come se fossero loro i genitori della bambina. Quelle cose escono di per sé e mi sembrava interessante dare la sensazione che questi fossero i pensieri dei protagonisti. Volevo che riuscissero a sostituire la precisione delle parole.

Rinunci a far vedere il background in cui vivono i personaggi. La macchina da presa si rivolge a loro e in assenza di uno sguardo propriamente sociologico sono le espressioni dei ragazzi a farcelo intuire.

La scelta dei luoghi è dettata proprio da questo, nel senso che ho ambientato la storia in un quartiere particolare della città di Nettuno chiamato Scacciapensieri, pensato per essere una base Nato, poi all’ultimo spostata a Pratica di mare. Tale cambiamento lo ha fatto diventare una specie di piccolo quartiere fantasma. È abitato da persone, ma la cosa bella è che è rimasto identico all’epoca – la fine degli anni ’70 – in cui era stato costruito. Per questo ha una qualità fuori dal tempo, una sorta di vuotezza che ti trasmette una caratterizzazione non così importante, come a suggerire che questa storia potrebbe succede in qualunque parte d’Italia.

Potenti sono anche le immagini del mare. Non sono molte quelle che lo ritraggono, ma risultano sufficienti a farne la metafora della voglia di fuga da parte di Lena e, d’altro canto, dell’impossibilità di farlo da parte di Ermanno. 

Si, le immagini vanno esattamente nella direzione che hai appena detto.

Il che conferma una qualità visuale, quella del film, in grado di integrare una sceneggiatura scarnificata con immagini a cui è assegnato il compito di parlare allo spettatore.

Si, il tentativo era di lasciare allo spettatore lo spazio per ragionare emotivamente su quello che succede. Anche a livello di plot.

In un film come Sole il lavoro sugli attori è determinante. Tra l’altro, per quanto riguarda i protagonisti si tratta di due volti inediti.

Sono importanti perché loro sono il film. La cosa bella è che Claudio Segaluscio quando me lo sono trovato davanti era perfetto nel suo essere, esattamente come me lo ero immaginato. Parlo dei suoi lineamenti, del dolore degli occhi e, allo stesso tempo, di questa sorta di tenerezza potenziale. Per Elena abbiamo cercato in varie parti dell’Europa dell’est e una volta incontrata Sandra Drzymalska ho capito che lei avrebbe interpretato il personaggio meglio di come me lo ero immaginato io. Lei non sa l’italiano e lo ha imparato per il film, è polacca, professionista, appena uscita dalla scuola. La cosa buffa è che Claudio non parla inglese, lei non parla l’italiano e quindi di fatto non hanno mai conversato nel senso vero della parola. Abbiamo fatto tantissime prove senza che loro riuscissero a capirsi. Questo faceva gioco alle dinamiche esistenti tra i personaggi.

A proposito di incomunicabilità, di fatto assegni alle espressioni dello sguardo il compito di trasmettere emozioni e stati d’animo. Molte scene sono prive di dialogo, cosa non comune nel cinema dei nostri anni.

Si, mi rendo conto che molte persone lo notano. Io amo tutti i tipi di film, ma in fondo credo che la settima arte si manifesti nel silenzio, al punto che è possibile vedere lungometraggi stranieri di cui riesci a capire di cosa parlano anche non conoscendo la lingua. Alla fine il cinema è un’arte plastica e figurativa e non verbale, quindi a me è venuto naturale non utilizzare molti dialoghi. So che rispetto agli standard attuali in effetti i personaggi conversano poco, ma ti giuro che a me sembrava parlassero addirittura troppo. Quindi, a parte dire che mi è venuto d’istinto, penso che il cinema si debba prendere il rischio di far percepire i pensieri dei personaggi perché a differenza di altre arti lo può fare. Questa era un po’ l’intenzione.

Parlavamo dei possibili modelli di questo film. Pensando al personaggio di Lena mi è venuto in mente Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati.

Il film di Mazzacurati purtroppo non l’ho mai visto ed era uno di quelli che avrei voluto visionare ma, ti ripeto, ho pensato molto al cinema giapponese. Ci sono due film di Mikio Naruse, When a Woman Ascends the Stars e Floating Clouds, che sono molto diversi dal mio ma a cui mi sono ispirato come tono. Questo regista è un genio dimenticato che ha iniziato nel muto e ha finito di lavorare negli anni ’60. Si tratta di un autore classico, soprattutto per il pudore tipico dei personaggi giapponesi, rispettosi delle emozioni e del fatto di non mostrarle finché non si è veramente sicuri di quello che si sta provando. Questo per me era fondamentale.

Nel tuo film penso che ci sia la pulizia estetica dei film giapponesi.

Magari, io amo il loro cinema da morire.

Diciamo qualcosa anche del cinema italiano, che qui a taxidrivers.it cerchiamo di sostenere parlandone e cercando di farne parlare.

Di sicuro ti dico Pietro Marcello – di cui dicevamo fuori onda -, per il suo rifarsi alle basi del linguaggio cinematografico, ma allo stesso tempo costruendolo in una chiave quasi barocca. Mi piacciono tantissimo i film di Alice Rohrwacher, mentre Garrone per me è una specie di nume tutelare. Mi interessa da morire il modo di lavorare di Guadagnino, che mi attrae e mi affascina, perché in lui vedo una programmaticità che non viene meno a una totale libertà,

Hai citato tutti film che pur raccontando storie legate al nostro territorio adottano un linguaggio universale.

Penso che sia importante cercare delle storie che possano interessare anche fuori dall’Italia, perché per me il cinema non deve basarsi solo sul folklore, cioè sull’uso di elementi sociali, antropologici e di costume di un paese per creare le sue storie ma, piuttosto, creare ponti tra diversi culture.  

Mi piaceva concludere questa conversazione tornando al tuo film per menzionare la scena finale, e cioè il prendersi dei personaggi attraverso una serie di strappi continui. Si tratta di un momento forte e altrettanto bello. Mi dici come l’hai girata?

Ti potrei dire che il film è stato pensato per quella scena, nel senso che Sole doveva raccontare due cose: da una parte il dolore che Lena aveva nascosto, dall’altra la necessità di disfarsene, come succede alla fine della storia. Si trattava di rendere la liberazione di questi fisici trattenuti che riescono finalmente a esplodere. Abbiamo lavorato molto sui corpi, e la capacità di Sandra di trasformare le emozioni in manifestazioni fisiche ha fatto sì che lavorassimo in questa direzione. Durante le quattro, cinque ore in cui abbiamo girato la scena lei era un toro, nel senso che ha picchiato Claudio senza pietà (ride, ndr). Si trattava di un passaggio necessario a innescare il risveglio fisico che la porta poi al pianto finale. Abbiamo passato tutto il tempo a torturare il povero Claudio, ma il film doveva arrivare a questo balletto liberatorio.

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