La mia classe di Daniele Gaglianone, con Valerio Mastandrea
Daniele Gaglianone e il suo storico produttore Gianluca Arcopinto con La mia classe segnalano uno dei temi più caldi e problematici del nostro paese, quello dell’integrazione e della tolleranza, raccontando le giornate scolastiche di un maestro (Valerio Mastandrea) alle prese con una classe di studenti sui generis. Da vedere
La mia classe, un film italiano del 2013 diretto da Daniele Gaglianone, interpretato da Valerio Mastandrea e da attori non professionisti verrá presentato domani al Festival dei diritti umani di Lugano 2024. Il film era uscito nelle sale giovedì 16 gennaio 2014. Sceneggiato da Gino Clemente, Claudia Russo e Daniele Gaglianone e prodotto da Gianluca Arcopinto, La mia classeè interpretato da Valerio Mastandrea, Bassirou Ballde, Mamon Bhuiyan, Gregorio Cabral, Jessica Canahuire Laura. Il film è stato girato a Roma, in zona Torpignattara.
Un attore è un maestro che insegna in una classe di extracomunitari che vogliono imparare l’italiano per avere il permesso di soggiorno e per integrarsi nella società italiana. A un certo punto il regista dà lo “stop” alle riprese e tutta la troupe diventa un tutt’uno con la storia del film.
La mia classe. Recensione
È una linea sempre più netta quella che attraversa e divide buona parte della produzione cinematografica italiana. Quasi fosse il riflesso di una compagine sociale spaccata a metà dal progressivo divario che divide i ricchi dai poveri, il cinema italiano sembra assorbire la disfunzione prima ancora di girare, con una serie di regole (referring system, tax credit) che ne sanciscono all’origine l’insanabile dicotomia.
Da una parte agglomerati di investimenti finanziari, colletti bianchi ed indagini di mercato pronti a ragionare in termini di numeri e di profitto, dall’altra guerrilleros all’arma bianca decisi a resistere per il trionfo dei principi e della idee. Uno scenario contraddittorio e con poche sfumature, nel quale però pur con tutte le difficoltà del caso si stanno facendo strada una serie di coraggiosi decisi a non mollare. Antesignani di un’onda lunga che ha visto recentemente alla ribalta autori indipendenti come Gianfranco Rosi, Roberto Minervini e non ultimo Ciro De Caro, torna sugli schermi (grazie al Festival dei diritti di Lugano) una delle coppie più collaudate del nostro movimento, parliamo di Daniele Gaglianone e del suo storico produttore Gianluca Arcopinto, con un film, La mia classe, che si affaccia senza sconti su uno dei temi più caldi e più problematici del nostro paese e non solo, quello dell’integrazione e della tolleranza, raccontando le giornate scolastiche di un maestro alle prese con una classe di studenti sui generis.
A frequentarne le lezioni è infatti un gruppo di persone eterogeneo, uomini e donne di età ed esperienze diverse, giunte in Italia nella speranza di un’esistenza migliore. L’apprendimento della lingua insieme al riconoscimento che ne deriva è il punto di partenza necessario per ottenere il permesso di soggiorno, ma non solo, perché quell’angolo di mondo funziona anche come un vaso comunicante di sentimenti ed esperienze spesso indicibili, rivissute attraverso il racconto che gli allievi decidono di condividere con il loro mentore. La comunione di spirito è però interrotta dalla cronaca, quando uno degli allievi è costretto a lasciare la scuola per il mancato rinnovo dei termini di soggiorno. Un fulmine a ciel sereno che fa tornare a galla vecchi fantasmi e mette il maestro di fronte alle responsabilità di una società incapace di prendersi cura della sua parte più fragile.
Gaglianone decide di affrontare la questione partendo dal basso, preoccupandosi, come sempre ha fatto, di dar voce a chi non ne ha mai avuta. In questo caso al gruppo di extracomunitari chiamati ad interpretare se stessi in un gioco di specchi, tra finzione e realtà, a cui Valerio Mastandrea si presta con il carico di umanità ed empatia che l’understatement recitativo gli garantisce e che, in questo caso, era indispensabile per sintonizzare il suo personaggio al resto del gruppo. Con questi presupposti, La mia classe diventa un invito a ritornare sui propri passi – la sequenza d’apertura sviluppata sul filo del tempo con i pensieri del protagonista doppiati dal percorso a ritroso effettuato in direzione opposta da quella da cui era venuto -, riscrivendo la Storia dal punto di vista di chi l’ha subita, seguendo l’esempio dell’insegnante, che invita gli allievi a completare il pensiero che ha scritto sulla lavagna. E poi, decostruendo le varie fasi dell’osmosi con il paese straniero, attraverso la proposizione di una serie di lezioni che nella struttura narrativa dell’opera funzionano come altrettanti capitoli del libro che prende forma sotto i nostri occhi.
Argomenti (la casa, l’integrazione, i diritti ed i doveri) che danno modo a Gaglianone di mettere davanti alla macchina da presa una coralità di pensieri ed esperienze ora divertite, quando si tratta di correggere lo strafalcione del compagno di banco, ora drammatiche, nel momento in cui a venir evocati sono i trascorsi di una vita lontana ma ancora presente nella voce rotta dal pianto di dolore per quello che non si riesce neanche a pronunciare (la ragazza iraniana che non riesce a proferir parola), oppure che prende il volto nel ricordo del corpo senza vita dell’amico caduto per affermare i diritti di un intero popolo (quello egiziano della primavera araba).
Consapevole della retorica e delle ipocrisie che si nascondono dietro il soggetto che prende in considerazione, Daniele Gaglianone si prende i suoi rischi, non solo nella scelta di realizzare un film che si svolge dentro un’aula scolastica ed interpretato da attori sociali – da Vittorio De Seta con il suo Diario di un maestro a Laurent Cantet di La classe – Entre le murs, l’elenco di chi l’ha preceduto è lungo e prestigioso – ma soprattutto in quello di esporsi in prima persona quando si tratta di giustificare agli studenti le ragioni di una legge che, impedendo ad uno di loro di frequentare la scuola, mette sullo stesso piano vittime e carnefici. Ed è proprio questa mancanza di confine tra campo e fuori campo, tra ciò che è in scena e quello che ne dovrebbe restare fuori, che permette al suo cinema di esprimere in maniera concreta la ribellione nei confronti di un sistema che non riesce a condividere. L’effetto è straniante, con sequenze che assomigliano a making of in cui i fonici, intenti a sistemare i microfoni, si alternano agli assistenti, che mettono a punto gli ultimi dettagli.
Sulle prime si può rimanere interdetti, ma alla fine a prevalere sono la verità dei contenuti e la sincerità di un’opera suggellata dal j’accuse di Valerio Mastandrea, straordinario nella potenza del monologo finale che tira le fila del discorso del film e di un personaggio che, ad un certo punto, si ritroverà a vivere la condizione di fragilità e debolezza dei suoi interlocutori. È nella capacità dell’attore di diventare una cosa sola con la materia narrata che La mia classe riesce a trasformare il cinema in un documento di bruciante attualità.