Cinque fricchettoni capeggiati da un uomo in sigaro e un nerboruto wrestler di colore; una scuola di ballo; un docile e intelligentissimo robot con le sembianze di una ragazzina; uno scavezzacollo che inventava un’arma nucleare partendo da un termosifone e una lampadina; una famiglia scombinata. Ecco il panorama (di tutto rispetto, eh) che si presentava nella tv di inizio anni ’90, quando irrompe nei palinsesti la storia di una bellissima ragazza del liceo in una sperduta cittadina tra Stati Uniti e Canada trovata morta avvolta in un sacco di plastica, che scoperchia adulteri, incesti, spettri sessuali, intrighi internazionali, follia e psicopatologia quotidiana: facile immaginare il terremoto mediatico, culturale, sociale.
Twin Peaks ha cambiato irrimediabilmente il volto della narrativa seriale e del panorama pop tout court. E basta.
TWIN PEAKS, O IL NASTRO DI MOEBIUS IN PRIMA SERATA
Come una macchia d’olio, l’omicidio di Laura Palmer filtra e intride ogni personaggio della fittizia cittadina americana di mistero, angoscia e perdizione, ma non solo, perché dopo 30 anni le vicende e gli incubi continuano ad investire ed invadere spettatori e critici, alla ricerca di un inizio e una fine che in realtà o coincidono o non ci sono.
Sono 30 anni che ci riaddormentiamo e ci svegliamo nella Loggia Nera dove l’agente Dale Cooper è rimasto imprigionato, sfuggendone (o no?) dopo due decadi e più. Ma la soluzione forse sta nella teoria dei doppelganger, connessa al perturbante freudiano (Das Unheimliche in tedesco), aggettivo sostantivato che fa riferimento ad un sentimento di angoscia e paura che si avverte quando qualcosa di familiare viene sentito come estraneo nello stesso tempo; e Unheimliche etimologicamente è il contrario di heimliche, tranquillo, fidato, intimo, appartenente alla casa.
La mitologia di Twin Peaks è quindi tutta costruita intorno al perturbante: ciò che è familiare è estraneo e viceversa, nel realizzarsi di un principio di non contraddizione che è tipico dell’inconscio. È in casa che Laura Palmer incontra Bob, personificazione di pulsioni primitive forti e incontrollate, unione di Eros e Thanatos. Ma Bob è -anche?- un fantasma, anzi IL fantasma dell’Edipo (incarna l’eros paterno) che si realizza, e per questo diventa inquietante, psicotico, reale, alla fine per questo – forse – concreto. La relazione edipica, come testimoniato dalla sua presenza nella tragedia greca prima e shakespeariana poi, è una dimensione fantasmatica tipica del nostro inconscio, transpersonale, la cui esistenza si perde nella notte dei tempi; ma per non far sì che diventi mortifera, che non faccia impazzire, non deve mai realizzarsi, ossia deve rimanere nella dimensione del fantasma.
Se Twin Peaks nasconde e fa esplodere il perturbante, la Loggia Nera è invece l’inconscio, la casa con tre appartamenti di Lost Higways, il teatro di Inland Empire. L’inconscio studiato e tradotto in immagini imperscrutabili dal genio indiscusso di David Lynch, dove Bob (doppio di sé stesso, con il suo nome palindromo) porta con sé una congerie di immagini e fantasmi che popolano questo spazio oscuro. Un inconscio popolato da pulsioni feroci e i loro contrari, grumi indistinguibili e indistricabili di emozioni non digerite e non arrivate alla coscienza; non è quindi inconscio come prodotto di rimozione, ma è tutto quanto ciò che c’è di primitivo e istintuale insito nella natura umana, impasto pulsionale di Eros e Thanatos. Ricordano la garmonbozia, pappone indigerito che compare in Fuoco Cammina Con Me (film imploso ed esploso, che incredibilmente solo oggi, a ritroso, si dimostra più grande, più complesso e più bello di come poteva sembrare e come era sembrato agli spettatori distratti e occasionali del tempo) come in Twin Peaks 3, ora come sangue, ora come pasta di mais, ora come vomito, materia cerebrale: dolore indigeribile, emozione che non diventa pensiero, grumo emotivo non passibile di elaborazione e di contenimento.
IL SOGNO E IL SOGNATORE
La struttura narrativa di Twin Peaks è indistinguibile dalla scena onirica: con un contenuto manifesto (la scena, i suoi simboli) ed uno latente (i pensieri e soprattutto le emozioni che l’hanno prodotta). Proprio come nei sogni, spesso non riusciamo ad identificare una “storia”, ma ci limitiamo a raccontarne i pezzi, attribuendo quello che per noi – ma solo per noi! – è un senso.
Dopo anni di studi, riflessioni e introflessioni è chiaro che la sola cosa che si può capire dell’universo lynchiano è che sia popolato da una molteplicità di simboli, alcuni tipici altri completamente nuovi; ma ciò che lo rende così suggestivo e attraente è proprio la potenza evocativa di ciascuno di questi simboli.
Spartiacque, e chiarificatrice per quanto ci è possibile, la terza e (ad oggi?) ultima stagione di Twin Peaks, nella fattispecie la puntata s3e08: costruita in definitiva come un sogno, con i simboli che scorrono sulla scena assumendo un significato diverso a seconda della mente che li ha prodotti. Ogni episodio assimilabile ad un sogno, un sogno per quanti sono gli spettatori e gli utenti. Tanti sogni diversi, allora, e tanti simboli condivisi. Per dirla con le parole della suggestiva Monica Bellucci (che è brava nella misura in cui un regista sa tirarle fuori l’enigmatica indecifrabilità): “Siamo come il sognatore che sogna e vive dentro un sogno: ma chi sta sognando chi?”
LA FINE NON E’ LA FINE (“SEMBRAVI TU, MA NON ERI TU”)
Va sottolineato come tra le prime due stagioni e la terza ci sia poi una differenza fondamentale: perché solo in quest’ultima il controllo narrativo e creativo è totalmente in mano a David Lynch, eliminando la sua parte “mainstream” per così dire, ovvero Mark Frost. È per questo che in questa terza stagione, dagli Cahier Du Cinema eletta tra i migliori 10 film del 2019 (e considerandola, non a torto, come un unico lungo film di 18 ore), c’è tutto il vero Twin Peaks lynchiano. Che risale via via fino all’origine del Male e del Bene, al loro senso e al loro non-senso. Riversando questa sua garmonbozia sullo schermo, in un’operazione forse mai vista prima: una vera e propria sfida per e allo spettatore, un enigma affascinante da sciogliere, una digressione folle ma lucidissima che segue solo e soltanto -o almeno sembra- gli equilibri psichici del suo creatore, sbeffeggiando ogni bisogno di avere segnali riconoscibili, paletti logici, segmenti narrativi secondo binari consueti. Sarà forse per questo che Inland Empire è l’ultimo, ad oggi, progetto per il grande schermo di David Lynch, e probabilmente lo rimarrà, se si guarda ad un mercato produttivo e distributivo sempre più caotico ma sempre più “allineato” e soffocante, un imbuto che setaccia ed esclude ogni traccia di soggettivismo. Ed è sicuramente per questo che il genio di Lynch si confà perfettamente alla narrazione seriale (post)moderna, che d’altronde lui stesso ha contribuito a creare proprio con il suo Twin Peaks del ’92, una narrazione senza limiti di tempo e senza le catene di una distribuzione.
Un film, un serial, un’opera che non poteva che concludersi come si è in effetti conclusa (per ora?): con un doppio twist narrativo e semantico, perché c’è un primo finale con la puntata s3e17, in cui più o meno la narrazione ricongiunge i punti lasciati in sospeso e dedica, a tutti coloro che hanno bisogno di una logica, un finale che è quanto di più vicino all’happy end che si può pretendere da Lynch.
Ma c’è poi un secondo finale, quello della s3e18, quello vero e profondamente lynchiano: un finale che sembra appunto un nastro di Moebius che si riavvolge su sé stesso negandosi e affermandosi continuamente, alternativamente. E che si ricongiunge quasi poeticamente a quelle prime immagini di 30 anni fa, quando “il sogno” iniziava, per distruggerle e crearne delle nuove.
In una nascita che non poteva che iniziare con un urlo.