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Approfondimenti

Piccolo viaggio nel “cinema d’isolamento”. O “l’isolamento nel cinema”

Si possono riscoprire alcuni film che nell'isolamento trovano la propria spinta narrativa. Un isolamento non necessariamente domestico, giacché è soprattutto nel distacco emotivo, introspettivo, che spesso si sviluppano le vicende più accattivanti. In quella segregazione che è il frutto di uno straripamento di domande e risposte

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In un momento di corretto e sacrosanto isolamento atto alla prevenzione, chi ne ha la possibilità può trovare il bicchiere mezzo pieno e godersi la famiglia o l’affetto a portata domestica. Essendo ottimisti e pensando che ciò possa davvero essere un momento di riscoperta del luogo di famiglia. Per tutti gli altri (come chi scrive ad esempio) nulla di sostanziale cambia se non forse l’occasione di incrementare ulteriormente la passione per il cinema e le serie tv. In quest’ottica si possono riscoprire quei film che nell’isolamento trovano la propria spinta narrativa. Un isolamento non necessariamente domestico giacché è soprattutto nel distacco emotivo, introspettivo, che spesso si sviluppano le vicende più accattivanti. In quella segregazione che è il frutto di uno straripamento di domande e risposte.

Questioni tipo: Ma che faccio? Che fare? Ho capito che non posso guardare al cielo e allora guardo alla terra. Mi rinchiudo in casa? Mi isolo dalla fede e dalla fedeltà, dalle persone e dalla società? O magari esco, esco e valuto l’idea di fare il salto dal ponte come in Castaway on the moon di Lee Hae-Jun (2009). E se ti va male anche in cotale caso? Questo film ci spiega che persino scelte strutturalmente semplici possono celare avversità altre. Ossia, può un uomo tentare il suicidio gettandosi da un ponte e finire intrappolato su una piccola isola sotto i ponti della città stessa? Può una ragazza decidere di restar chiusa nella sua stanza per ben tre anni? Evidentemente sì, o meglio è lo spettro cinematografico che mutua la realtà; spazio interarticolare, cromogeno, differenziale. Le cose vanno così: la Happy & Cash Finanziamenti Privati pretende il cospicuo pagamento di un debito da parte di un uomo la cui azienda di ristrutturazione è fallita. L’uomo, Kim Sung-geun, ascolta l’impiegato spiegargli la situazione al telefono. A spiegazione conclusa Kim risponde che è tutto chiaro, cristallino, e chiudendo la chiamata si getta nelle non proprio splendenti acque del fiume Han. Il suicidio fallisce e lui si ritrova su un isolotto. Attraversati momenti di sconforto (Kim non sa manco nuotare e non può tentar di raggiungere la città) il naufrago diviene pian piano l’occupante dell’isola e allo stesso tempo l’auto-occultante. Ricalcando in modo ironico il Castaway di Robert Zemeckis e in modo iconico il noto Robinson Crusoe, Kim si ingegna e fa quel che può per sopravvivere, aiutato anche da idee salvifiche come la ricetta dei tagliolini ai fagioli neri. A differenza di Tom Hanks, il naufrago di Castaway On The Moon inizierà ad amare quella condizione di solitudine e soprattutto l’allontanamento dal sociale. La sua lotta non consiste nel voler andarsene dall’isola ma nel voler restare lì.

Su un’altra isola, in forma di stanza di appartamento, risiede invece una ragazza. Rinchiusa per scelta nella sua camera, dedita a regole di sopravvivenza ben calcolate: sa quante calorie deve accumulare, quanti passi fare per aiutare la digestione. “Metodi efficaci per evadere la realtà”, come dice lei stessa stando bene attenta a non incrociare i genitori che vivono con lei in casa. Il solo hobby della giovane donna è quello di affacciarsi con cautela alla finestra e fotografare la Luna; conquistata dall’idea che non si può soffrire di solitudine in un posto in cui non c’è nessuno. Sarà proprio grazie all’obiettivo della macchina fotografica che si accorgerà del naufrago sull’isola. I’ll send an SOS to the world, I hope that someone gets my message in a bottle. Qualcuno è come Kim che sa far sua la solitudine e qualcuno è come la ragazza che vive nella sua stanza, che vive il mondo come una minaccia che disarma maggiormente, che impoverisce le gambe, che genera indolenza. Per camminare in un luogo sassoso come il comun-vivere può bastare anche adoperarsi con un paio di bottiglie come scarpe. Non riluttante al vivere in sé, gustare a fior di labbra, riconoscere le avvisaglie, deliberare la minuziosità per il proprio esistere. Pretendere innanzitutto da se stessi di aver il diritto di Essere. Un’isola può rivelarsi polivalente e non tramutarsi in una prigione.

Isole e mare, luoghi o spazi di riflessioni nell’isolamento. Ma non tutte le isole funzionano allo stesso modo. Nell’isolamento, può capitare di dover vivere una assurda forma di convivenza. Un esempio calzante in modo estremo? Cul de sac di Roman Polanski (1966). In una vecchia intervista – datata 1969 – Polanski ci dice che Cul de Sac è il suo film migliore, dal punto di vista cinematografico. “Se fossi alla ricerca del cinema come Beckett è alla ricerca del teatro, non farei che film come Cul de Sac. Sfortunatamente o forse per fortuna, amo la vita e amo divertirmi, amo fare film” (…) “In Cul de Sac c’è una cosa necessaria, ed è quella marea che isola il posto”; una linea narrativa del cinema di Polanski, la separazione dal mondo. Personaggi assediati dal sociale, personaggi auto-esilatosi per difesa, per scelta, per fatalità. È probabilmente fin troppo facile trovar le radici di questo in un regista isolato-esiliato per eccellenza, fin da subito. Per capire: nel 1942 Polanski aveva nove anni e a Varsavia si è visto costruire intorno un muro eretto dai tedeschi; la creazione del quartiere dei deportati. Polanski intrappolato. Il Polanski che osserva una anziana cadere, colpita alla schiena da un ufficiale tedesco. Il Polanski bambino che corre verso un portone e si nasconde sotto una scala. Il Polanski che per la sua passione dei francobolli rischia la vita uscendo dal ghetto giacché troppo forte il desiderio di andarseli a comprare quei francobolli. Il nomade Polanski che poi si sposterà a Parigi, ad Amsterdam, a Londra, ad Hollywood. Un nomadismo che è fuga. Cul de Sac inizia con una fuga, due gangster feriti dopo un colpo (come si suol dire) finito male trovano rifugio in un vecchio castello. L’uomo alfa, quello più rude e corpulento prende in ostaggio la coppia che del castello ne ha fatto una residenza. Poveri ostaggi? Non proprio, giacché seppur in modo differente nessuna delle vittime vuol fare da vittima. Il grottesco prende forma, “la comicità non offre scampo dalle situazioni”. La marea sale ed è il gruppo in toto ad esser ora ostaggio degli eventi. Una assurda forma di convivenza dove i ruoli mutano precipitosamente e dove, ad un certo punto, l’alcol fa da collante tragico; edace palliativo di una esistenza che soffre di sé stessa. La marea accentua e struttura in modo architettonico l’irrimediabile solitudine, la problematicità dell’io e la condanna della reclusione dal mondo altro. Lo stadio estatico kierkegardiano si scioglie nella perpetua insoddisfazione di Schopenhauer ma con schegge di irrisoria ferocia, beffarda e grottesca.

La misoginia di Polanski. Curiosa forma di misoginia perché solitamente ci regala ottimi personaggi femminili, sensuali, ribelli. Qui, per dire, c’è una straordinaria Francoise Dorlèac (sorella di Catherine Deneuve, vittima di un incidente automobilistico nel 1967) che si tuffa in acqua nuda mentre i due uomini ubriachi sparano al cielo (i rudi maschi Donald Pleasence e Lionel Stander). Lei ridicolizza il gangster, lei manovra il compagno, lei gioca, lei si mostra e ci delizia. Il loro castello, il castello di Northumberland, in chiave allegorica è l’isolamento desiderato e combattuto, è il grottesco che abbraccia il dramma, l’incapacità di trovare uno spazio sociale. Spazio sociale che quando appare allontana. Sì perché ad un certo punto del film compaiono soggetti esterni ma è un esterno ancora più pericoloso della visita indesiderata dei gangster: è il mondo normale. Isolarsi da soli può portare danni e isolarsi con i propri simili può apparire la scelta migliore. O forse no. Non era Hobbes che avvertiva dei pericoli dell’uguaglianza? L’uguaglianza non è autogovernante: abbiamo sempre bisogno di un leader giacché lui (Hobbes) presume che dall’anarchia dell’uguaglianza si può uscire, grazie ad una certa alienazione delle proprie libertà. Avere un leader non è tuttavia sufficiente, il nodo risiede in un equilibrio di obblighi e cotali patti sociali possono ben donde funzionare. Funzionano davvero? Bè, in caso contrario possiamo vedere cosa succede in Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog (1970)

Il terzo film di Herzog – girato all’età di 26 anni – dopo aver superato esperienze non proprio edificanti quali il carcere in Africa e la malaria. Il film, ambientato su un’isola (ancora un’isola sì, ma questa volta vulcanica), racconta l’atto di ribellione, devastazione, follia di un gruppo di nani a scapito di un maestro che tiene in ostaggio il loro leader. Herzog ha scritto il copione in cinque giorni, non sapendo bene neanche lui perché, o meglio non ponendosi molte domande sul perché. “Un lungo incubo davanti ai miei occhi”, questo rappresenta la pellicola secondo il regista. Dolori e incubi che necessitavano di una messa in opera, di una forma di dispiegamento. Uno svelare con una “verità estatica” il doppio atto della forma e dello smascheramento: una elaborazione. A questa funzione di rigetto oltre alla degenerazione del gruppo di nani – un microcosmo in tutti i sensi – si accompagnano una scrofa agonizzante assediata dalla famelica prole, una scimmia crocifissa (in realtà legata con corde di lana), cannibalismo tra galline (il regista semplicemente le seguiva fare ciò che tra loro già facevano), un dromedario incapace di alzarsi (in realtà con comandi specifici fuori campo) e un’auto senza autista che gira su sé stessa a motore acceso (uno dei nani venne anche investito accidentalmente durante le riprese). La natura dell’incubo è legata ad aspetti come il fatale, l’inevitabile, il dubbio, i sentimenti primordiali rimossi, la morte. Il film è chiaramente tutto questo, un’astrazione della perdita o della prossimità del baratro senza possibilità di fuga. Una fuga possibile anzi c’è, ma è l’abbandono, l’autodistruzione. Herzog è figlio della Germania nazista, nato durante la guerra. Come lui stesso dice, una generazione di orfani, senza padri da seguire, senza padri dai quali imparare. “L’assenza di figure paterne e la mancanza di continuità culturale”, il tragico inevitabilmente presente, qui in veste “cinematografica”. Se per Hobbes ordinarsi – nell’ordine sociale – è un subordinarsi abbiam visto come a ciò, su un’isola abitata da nani, possa aggiungersi il disordinarsi e il fare di questo disordine un circolo perpetuo. Come fuggir or dunque in modo decente dal comunitario? Dio ci ignora, le isole non funzionano, il separarsi dal mondo non funziona. Or bene, non pare vi sia modo. Anche perché a volte è il comunitario stesso a venirci addosso. Ecco allora il film dove l’altro bussa alla tua porta e ti accusa: Il processo di Orson Welles (1962).

Non ci sarebbe manco bisogno di scriverlo ma il film è girato come si deve, comme il faut. L’uso del grandangolo, il long take, il dolly. E poi il felice connubio WellesKafka. Oggi chi potrebbe riportare Kafka sulla pellicola? Chi potrebbe mettere in scena le sue tematiche? Sicuramente Terry Gilliam, Spike Jonze o Charlie Kaufman; mi piacerebbe vedere Il Processo adattato da uno di questi simpatici cineasti. Il Processo, be’ il soggetto è noto. Un uomo Josef K. viene svegliato la mattina (e il risveglio è “il momento più rischioso”, così come si legge nel romanzo) da due agenti di polizia che gli notificano lo stato di arresto. Per cosa viene arrestato? Non si sa ma l’uomo – in attesa della condanna – può comunque muoversi liberamente seppur in modo estraniante nel labirintico sistema giudiziario-esistenziale. Dalla sua parte troverà solo le donne, donne che lo coccolano, lo seducono e gli vengono in soccorso giacché Josef K. ha bisogno di essere aiutato dalle donne per orientarsi nel labirinto in cui è incappato. E come dargli torto? Anche il film, ovviamente, ha una struttura claustrofobica, indirizzata verso un esito già inscritto nell’incipit. L’inquietante coterie di avvocati, giudici, funzionari e polizia da una parte e la sudditanza degli individui in attesa di giudizio dall’altra, poco più che un alienante marame. Nel mezzo si muove Josef K., interpretato alla grande (ma per molti la scelta non fu per niente indovinata) da Anthony Perkins. Anthony Perkins regala un valore ulteriore al film. Lui è un tipo ipnotico, inquieto ma non folle, sicuro ma non arrogante. Un attore che è piena fisicità. Diverge certo dal K. originario ma in fondo, se vuoi il Josef K. originario basta semplicemente leggersi il libro.>Josef K. si muove in una linea diacronica ed identitaria, lì nell’attesa e in un agire non-agire pressoché ininfluente o forse già previsto e quindi auto-condannante. Sulla scorta di quella medesima linea in cui, probabilmente, si trova Kafka. Tra Il Processo e Il Castello. Nel margine o nella linea, in un luogo di transizione. O nel nulla. La chiave di tutto è forse nella chiave che Leni, domestica e infermiera – la splendida Romy Schneider – dona a K.. La chiave che gli permetterà di incontrare la ragazza quando vorrà. Così come la chiave di tutto è anche nella chiave dell’usciere della Corte, una chiave che non c’è. Avere la chiave e non usarla, non avercela più ed averne bisogno. Continuamente.Il luogo ideale di Kafka e il luogo alienante che si rivela cestola imprigionante per Josef K. Seppur traslato nell’ottica di Welles, Il Processo riflette bene quello originario kafkiano. Nelle varie scelte di regia, nelle modalità filmiche, nell’obiettivo grandangolare Il Processo di Welles veste-trucca più che appropriatamente Il Processo di Kafka, operando una felice collaborazione artistica sia nella forma che nella sostanza.

L’alienazione della comunità che ti bussa alla porta e che ti perseguita e l’alienazione della comunità che ti chiude in casa o si dimentica di te. E qui che fare? Fingere di non essere da soli nell’atto violento dell’esserlo? Sì, è questo il caso de Nobody Knows di Hirokazu Kore-eda (2004). L’abbandono non è una cosa piacevole, ovviamente. A chi più e a chi meno è comunque un’esperienza che ci tocca. L’abbandono probabilmente più pregnante, diciamo così, è quello che si può sviluppare in giovane, giovanissima età. La cura mancata rischia di rimanere poi in forma infantile-ibrido, un oggetto che ricerca nell’età adulta la perdita dell’infanzia. Ti trascini con te il bambino abbandonato che è dentro di te. L’abbandono dunque, è di questo che parla il film di Kore-eda. Cosa faresti tu se ti dovessi ritrovare a vivere con i tuoi fratellini in un minuto appartamento di città? Forse ti scateneresti o forse ad un certo punto ti metteresti a frignare e a chiamare la mamma, pur sapendo che l’urlare rivelerebbe la vostra presenza nel condominio e pur sapendo che tanto la mamma non arriverà. I bambini giapponesi paiono decisamente composti, molto educati e sanno che certe regole non vanno violate. Infatti, quelli del film, cercano di mantenersi anonimi e mese dopo mese costruiscono il loro quotidiano con gli oggetti dell’ appartamento, con i colori, i disegni, i giochi e con loro stessi. Il più grande (Yûya Yagira, premiato come miglior attore a Cannes 2004) cerca di non far mancare nulla agli altri, fa la spesa, procura loro quei piccoli oggetti che desiderano. Non ha ancora l’età per poter lavorare ma per fortuna da parte ci sono i – non molti – soldi lasciati dalla madre. Più il tempo passa più quell’iniziale attesa materna si fa soffocante e più i soldi scarseggiano.Nobody Knows prende spunto da una storia realmente accaduta (i bambini abbandonati di Sugamo), Kore-eda filma tutto senza quasi narrare, o meglio, narra senza alterigia, senza strappare il pietismo allo spettatore e certi suoi piccoli dettagli (le mani dei bambini, le loro scarpe, uno smalto che segna il passare del tempo) hanno il pregio di uno sguardo naturale. Poetico, se mi si passa il termine. La poetica del quotidiano infantile. Una poetica data non dal fatto che il mondo è bello e poetico e siamo tutti meravigliosi ma dalle modalità narrative di Kore-eda. Una narrazione-sguardo che rispetta lo spettatore e la vicenda che narra.Il deficit parentale al quale sono sottoposti i quattro bambini viene documentato col medesimo occhio del bambino: la vicinanza del dolore e il voler istintivamente ignorarlo. In una sequenza i bambini si interrogano sull’esistenza di Totoro, si domandano quali difficoltà lui, con la sua stazza, potrebbe incontrare nel mondo di città. Probabilmente verrebbe arrestato, concludono. Un pensare Totoro che è più reale del pensare il sociale fuori dall’appartamento. Un sociale che sì li ignora (solo l’asociale può vederli) ma anche un reale sociale che loro per primi rifiutano. Il mondo esterno potrebbe infatti separarli. Il mondo sociale deve stare ai margini, o meglio, sono loro che devono restare ai margini. Mimetizzarsi o scomparire e godere dell’esterno solo quando sono in disparte. Nella beata solitudine stai a vedere che si può, dopo attenta riflessione, osservare la propria mente e poi, sollevando lo sguardo, vedere il volto del burattinaio, del cibernetico manipolatore? Ma soprattutto un cyborg può finalmente gestire la propria solitudine? Ecco allora Ghost in the shell di Mamoru Oshii (1995).L’autocoscienza trascendentale. L’io penso kantiano pensa se stesso? E se lo fa da dove parte quel pensiero che si pensa? Da qualcosa che gli dia modo di farlo, e dove risiede questo qualcosa? Cellule, particelle, sinapsi, impulsi elettrici e bio-meccanici. La natura materiale, la forma materia – il cervello è materia quanto una tazza da tè – che crea concetti, e i concetti unificano le rappresentazioni per tracciare un quadro e il quadro è il mondo, l’altro da me ma su di me. Alla base siamo empirici e al contempo psichici.

Ghost In The Shell (dal manga di Masamune Shirow) più o meno l’hanno visto tutti. Quindi è quasi superfluo disquisire su questo film srotolando come un prestigiatore efflussi di parole e interpretazioni. Mi soffermo sull’essenziale: un cyborg, una nostra versione ma potenziata. Più intelligente, molto meno debole, più concreto, più efficiente. Il cyborg di Ghost In The Shell – il maggiore Kusanagi, agente del reparto speciale di polizia denominato Sezione 9 – ha tutti i pregi dei cyborgs più un’intuizione: l’idea di potersi liberare del suo guscio. E quindi l’idea di una evoluzione. La sua mimetizzazione termo-ottica è già un’ indicazione visiva di questa possibilità ma soprattutto il suo rischiare ogni volta la vita immergendosi in acqua (senza i galleggianti affonderebbe) solo per la sensazione che prova durante la fase di risalita: la speranza e l’idea di poter diventare qualcun’altra. Il cyborg Motoko Kusanagi coltiva in sé una problematica esistenziale. “Tu l’hai mai visto il tuo cervello?” domanda ad un collega. Lei ha sì nel suo guscio di titanio cellule cerebrali umane ma è solo il modo con cui viene trattata dagli umani che la fa sentire umana: l’interazione. E non è sufficiente questo a chiarire cosa c’è nella sua testa né a chiarire il peso tangibile dell’umano e la portanza di quello che viene chiamato Spirito (non inteso in senso religioso, più che altro vicino al concetto di entità).>“Io raccolgo dati che uso a modo mio e questo crea un miscuglio che mi dà forma come individuo e da cui emerge la mia coscienza. Mi sento prigioniera, libera di espandermi solo entro confini prestabiliti.” Le questioni insite nel maggiore Kusanagi troveranno un pertugio di chiarificazione ulteriore con la comparsa di un misterioso hacker denominato il Burattinaio, nella traduzione italiana il “signore dei pupazzi”, il più abile manipolatore della storia del crimine cibernetico. Questa è la base, indubbiamente vertiginosa e affascinante di Ghost In The Shell e poi vi sono specchi, rimandi, citazioni, simbolismi. Il film di Mamoru Oshii viene giustamente indicato come una vera pietra miliare nel suo genere, e non solo. Essere cyborgs quindi ha i suoi simpatici vantaggi. Più o meno giacché, come si è ormai compreso, c’è da considerare non solo l’origine del mio Me ma anche quello che ci circonda e può ostacolarci: l’altro da noi.

In Garage di Lenny Abrahamson (2007) gli altri ci fanno rimpiangere la solitudine. Forse più di ogni altro soggetto all’interno della piccola comunità in cui vive, il protagonista di Garage è cosciente di sé. Pur nel suo evidente deficit mentale o magari proprio per questo, Josie (Pat Shortt), rispecchia quella indicazione cara alla psicologia analitica: l’individuazione di quello che si è. Un individuare sé stessi che arriva prima dell’individuare gli altri. Josie vive in una piccola cittadina irlandese, lavora in una pompa di benzina poco fuori dal resto della comunità. È diligente. Sa che le cose per funzionare bene devono essere ordinate. Il suo stare a proprio agio con sé stesso non gli impedisce comunque di ricercare il sociale. Terminato il lavoro, dopo essersi lavato e messo in ordine va nel consueto bar a farsi un paio di birre. La comunità lo conosce e pare volergli bene. Josie è il buono per antonomasia. Una bontà accettata per la distanza che c’è tra Josie e gli altri. Distanza che viene un giorno infranta quando gli viene affiancato un giovane aiutante, David. Un ragazzo che in qualche modo non è così lontano dal mondo pacifico e isolato di Josie. Di più ovviamente non si può dire. Il lodevole film di Abrahamson è tanto delicato quanto spietato. Oltre il cielo che Josie ama guardare, trovando magari in una giornata non tanto eccezionale l’eccezionale, vi è pulsante la cremisi di quello che è il comunitario e la sua stupidità. Non solo il comunitario, come corpo identitario, come massa di leggi e congetture, ma anche il comunitario come legge vera e propria. Come gregge funzionale. La diversità la si tollera se osservata a distanza, dal didentro del recinto, ma se l’elemento estraneo supera la linea allora l’elemento estraneo deve deferire e diventare pharmakos, soggetto che va trascinato fuori dalle mura. Dopo esser stato anche nutrito (magari con delle mele) il soggetto che non rientra nello spazio cittadino deve subire un giudizio netto. La solitudine, quella vera, diviene quindi non quella di Josie ma quella che governa la mentalità bigotta e auto-menzognera di coloro che anelano nella norma. Ecco quindi che isolarsi in una stazione di servizio, sedersi, godersi il paesaggio e una birra fresca significa salvaguardarsi. Ecco perché si rintraccia in un animale pur sempre selvaggio e quindi fintamente addomesticato come un cavallo, un amico al quale fare visita. Quando Josie si siede all’aperto si avverte il freddo provenire dalle spalle. Ma è un freddo che non impoverisce, è un freddo che non ispessisce la sua solitudine. Il batter iniquo del mondo altro – il sociale – quasi non lo si percepisce in quella condizione naturale e non viene difficile pensarla in modo ottimistico. Come a dire che è proprio una bellissima giornata. Fa freddo, tira vento, il cielo è grigio. Ma è pur sempre una bella giornata. Una bella giornata ventosa innanzi al mare come quella che troviamo in un altro film. Un film ove per fingere meglio sarebbe forse più lecito cadere nella pantomima: La regola del gioco di Jean Renoir (1939), ossia artisti, factotum, conigli e quaglie che si beano del loro contraddistinguersi dai poveracci.


Il film non andò bene, andò malissimo (la prima avvenne l’8 settembre del 1939, sette giorni dopo l’invasione tedesca sulla Polonia); venne anche ritirato dalla circolazione. Con lo scoppio della guerra non si sentiva davvero il bisogno di storie “disfattiste”. Qualche anno dopo il film venne rivalutato e ad oggi è unanimemente considerato un vero e proprio capolavoro (ossia pellicola esempio di vero cinema, come direbbe Bazin). In soldoni La regola del gioco si svolge nella tenuta del marchese de la Chesnaye, dove le esistenze accomodanti di nobildonne, nobiluomini e nobilcavalli incrociano quelle dei poveracci, dei subalterni. Personaggi ambigui, infantili, opportunisti che bighellonano tra battute di caccia (memorabile e crudele messa in scena allegorica), feste in costume, recite e soprattutto storie d’amore clandestine. Dal punto di vista stilistico La regola del gioco anticipa la profondità di campo di Welles e Wyler, rompe con il découpage classico adottando un uso cospicuo dei piani sequenza che ruotano attorno all’azione, sfrutta – in modo sorprendente per l’epoca – la quarta parete (vale a dire i personaggi parlano con interlocutori posti dietro la macchina da presa, sfilano davanti all’obiettivo per poi uscire fuori campo). Superbo in questo senso un compendio dove, con un bellissimo long take e con giochi di luci, i vari inseguirsi dei protagonisti vengono mostrati: una cameriera morde per gioco il naso dell’amante, una coppia parla su un divano, un uomo è insofferente appoggiato ad una parete, uno sposo tradito cerca vendetta.

Film fortemente politico che, facendo sorridere, inquieta. Renoir tratteggia un quadro impietoso della classe dirigente dell’epoca e per molti è anche un film profetico. Nella versione restaurata il DVD accoglie un extra: Renoir ci parla. “Perché questo film si può dire controverso? Alla prima del film al cinema Colisée ho visto uno spettatore che apriva sfacciatamente un quotidiano e tirava fuori i fiammiferi per incendiarlo per appiccare il fuoco in sala. Un film che provoca una reazione così, è un film controverso”. La regola del gioco, decadere e far finta di niente nell’isolamento dal mondo. Niente da fare or dunque, la crisi è innanzi. Eccola come un cazzotto. Non è stato per niente sufficiente gettarsi da un ponte o isolarsi nella propria stanza; non è stato per niente sufficiente isolarsi su un’isola con altri isolani; non è stato per niente sufficiente il pactum subiectionis di Thomas Hobbes, giacché l’avere un leader si è rivelato un disastro; non è stato sufficiente seguire le ragioni irragionevoli della comunità che ti bussa alla porta; non è stato per niente sufficiente nascondere l’atto violento della reclusione; non è stato sufficiente cercare di capirsi avendo una mente cibernetica; non è stato sufficiente starsene tranquilli distante dal piccolo paese ed infine non è stato sufficiente l’andare avanti facendo finta di divertirsi a prescindere, seppur immersi nella decadenza che da lì in poi porterà giù giù. Non si è cavato un ragno da un buco. La crisi era inevitabile, diciamocelo. Era insita nel segreto operare di cause contrarie. E la crisi ha condotto all’escludersi, all’allontanarsi. Un isolamento nel racconto del cinema che si speri però non coinvolga troppo a lungo la nostra di vita. L’augurio più sentito è ovviamente questo; il cinema ci appassiona ma la socialità deve nutrirci. In modo genuino, rispettoso, partecipativo.

Nelson Pinna

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