Netflix si dimostra la piattaforma indiscussa dei teen drama, in cui le innumerevoli emozioni proprie dell’adolescenza sembrano essere la fonte preferita alla quale attingere per creare nuovi show a tema, riuscendo a spaziare dal puro intrattenimento verso prodotti più impegnati. Nel giro di pochi anni abbiamo assistito a un sempre più crescente numero di titoli con un intento educativo; basti pensare a Tredici (2017), Sex Education (2019), Stranger Things (2016) e The End of The F***ing World (2017). Il 26 Febbraio è approdata su Netflix I Am Not Okay With This. La serie tratta dalla graphic novel di Charles Forsman, a metà strada tra The End of the F***ing World e Stranger Things, porta sullo schermo le peculiari avventure di Sydney Novak, interpretata da Sophia Lillis, già nota al pubblico per il suo ruolo in IT. Al suo fianco ritroviamo, nuovamente, Wyatt Oleff, nei panni di Stan. La serie condivide con The End of the F***ing World la regia di Jonathan Entwistle e il co-creatore Christy Hall.
Cosa racconta la serie?
La serie segue la vita di Sydney, una ragazza di 15 anni all’apparenza normale e alle prese con i problemi della sua età adolescenziale come qualsiasi suo coetaneo. Trascorre il suo tempo sotto gli spalti della scuola, ascoltando musica nella macchina della sua amica, il tutto tra un litigio con la madre e il fratellino. Attraverso il suo diario ci parla dei suoi segreti, come l’essersi innamorata della sua migliore amica Dina, o la bizzarra morte di suo padre, fino a quei poteri telecinetici che continuano a manifestarsi nei momenti più inopportuni.
Il cast di I Am Not Ok With This
Oltre alla passione per i titoli molto lunghi – si veda The End of the F***ing World – lo stile di Entwistle viene fuori anche in questo suo ultimo lavoro e lo si evince soprattutto partendo dalla scrittura dei personaggi, sempre molto incisivi e mai banali, che si manifestano con una regia ben calibrata e un montaggio serrato tipici delle sue opere. Interessante notare è sicuramente la struttura della narrazione: Syd racconta la sua vita attraverso un diario in cui deve annotare i suoi pensieri e, allo stesso tempo, la condivide con noi spettatori, tramite la voice over. Gli attori in questo giocano un ruolo fondamentale, convincendo appieno. Sophia Lillis riesce così a dare voce a tutti quegli adolescenti che si tengono tutto dentro e vorrebbero solo esplodere. Wyatt Oleff crea uno Stan intelligente, caparbio ma al contempo dolce e timido. I dialoghi intelligenti riescono a coinvolgere lo spettatore, che è indubbiamente incuriosito dalla storia e dai flashforward che anticipano il finale.
I Am Not Ok With This fra stile e convenzionalità espressiva
Netflix, continuando a cavalcare l’onda “teen”, conferma, con quest’ultima serie, la volontà di strizzare l’occhio al suo pubblico più giovane, rimanendo ancorata al reale, anche se i riferimenti al sovrannaturale fanno la loro incursione, mostrando così pregi e difetti di questa età molto critica. Il paragone con The End of the F***ing World è inevitabile non solo per le tematiche e per gli autori, ma anche per la tendenza a sequenze splatter o per le atmosfere indie che tingono la serie di uno stile old fashioned. In I Am Not Ok With This il tempo è sospeso e lo spettatore rimane perennemente col dubbio sulla collocazione cronologica. La fotografia si caratterizza di ombre e colori tendenti allo scuro che permette, ancor più, di sospendere il tutto in un’ambientazione indefinita. Quest’ultima risulta essere una nota estremamente positiva della serie in cui ogni scena è cromaticamente bilanciata, dai costumi alle ambientazioni e da una tavolozza di colori che va dall’ocra al marrone, arrivando al blu e rosso. Menzione speciale va, sicuramente, alla colonna sonora perfetta che per ogni svolta della trama abbina un contrappunto adeguato.
La particolare struttura la rende una serie godibile e leggera, che si adatta perfettamente al binge watching
Grazie ai sette episodi dal formato snello, con una durata dai 20 ai 30 minuti, si ha la sensazione di assistere a un lungo episodio pilota che forse darà il suo meglio nella stagione successiva; come lascia ben intendere l’episodio finale. La particolare struttura la rende così una serie godibile e leggera, che si adatta perfettamente al binge watching. L’aspetto più fastidioso è rintracciabile in una certa ridondanza nel trattare gli eventi. Giunti circa a metà stagione lo spettatore si ritrova ad attendere un qualcosa che stravolga le carte in tavola, dando una scossa alla trama, circostanza che purtroppo non si verifica. Una distribuzione non equilibrata della sceneggiatura fa apparire il tutto sotto un velo di piattezza che non significa necessariamente povertà di avvenimenti, ma solo mancanza di ritmo.
La similitudine, inoltre, con serie precedenti e non solo, tende alla lunga a stancare, reiterando un passato sfruttato non solo a livello di trama, ma anche come motivo di fascinazione nello spettatore. La serie non si distingue certo per la sua perfezione e un altro dei problemi evidenti è rintracciabile nella distribuzione della storia in cui si accenna, solo in modo parziale, al tema principale, per lasciare il fulcro della trama nella possibile stagione successiva.
La domanda quindi sorge spontanea: quanto abbia senso fare una prima stagione che dovrebbe essere il biglietto da visita per il pubblico e che si prefiguri, invece, nella sua struttura intrinsecamente già bisognosa di un seguito? Oppure, quanto siamo ormai figli di una narrazione seriale che necessiti irrimediabilmente di una continuazione, tanto da esserci totalmente assuefatti all’abitudine di trame prolungate all’infinito?
Alessia Ronge