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D’amore non si muore: il libro di Lino Capolicchio che ne ripercorre la carriera

D’ amore non si muore (edizioni Bianco e Nero del Centro Sperimentale di Cinematografia) è il nuovo volume in cui Lino Capolicchio racconta la sua carriera d'attore

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Lo ricordiamo ancora così, bellissimo, Lino Capolicchio, per le strade di Latina sul set del film di Giuseppe De Santis Un apprezzato professionista di sicuro avvenire. Era il 1971 ed in scena si confrontava con l’immenso Riccardo Cucciolla. L’immagine che riappare è quella di un attore che restava sempre, tra un ciak ed un altro, una maschera concentrata, e questo nonostante fosse bersaglio continuo delle fan invasate, che lo idolatravano e lo richiedevano anche a pieni polmoni. Gli occhi chiari e i capelli biondo platino certamente hanno contribuito molto a regalargli la fama di bello e di dannato, che tanto lo hanno aiutato, caratteristicamente, agli esordi cinematografici.

E Lino Capolicchio non nasconde che questa fisicità, all’inizio della sua carriera, pur giovandolo, gli sia stata un poco stretta e certamente poco digerita. Ricorda che spesso, camminando per le vie di Roma, e questo senza nulla togliere alla componente omosessuale, che riteniamo essere una componente naturale della condizione umana e della sua esistenza, veniva spesso apostrofato con una sonorissimo  “A frocio!… “. Dice Lino Capolicchio: “E questo per me era quasi un problema visto che io ero proprio fissato, e di brutto devo dire, per le donne. Ma comunque la mia carriera è stata proprio costellata da tante esperienze di lavoro con registi e con colleghi omosessuali e, se prendo a sfogliare la mia filmografia e la mia teatrografia, mi accorgo di essere stato accompagnato anche in maniera cospicua da compagni omosessuali. E dico questa senza alcun pregiudizio di sorta, comprendetemi bene”.

Ora tenere tra le mani il suo libro, D’ amore non si muore, edizioni Bianco e Nero del Centro Sperimentale di Cinematografia, significa capire e sapere che la sua è stata una vita ed una carriera costellata da grandissimi incontri: Pier Paolo Pasolini, Orson Welles, Giorgio Strehler, Anna Magnani, Vittorio De Sica, Carmelo Bene, Giuseppe Patroni Griffi, Elio Petri, Giorgio De Lullo, Richard Burton, Franco Zeffirelli. Interprete di una filmografia anche estrema, particolare, alcuni titoli non lasciano dubbi in questo senso: Escalation di Roberto Faenza, Vergogna schifosi di Mauro Severino, Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, Le tue mani sul mio corpo di Brunello Rondi, Corpo d’amore di Fabio Carpi, D’amore si muore di Carlo Carunchio, Calamo di Massimo Pirri, L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale di Ferdinando Baldi. Una filmografia che Capolicchio, nel suo libro, sembra svuotare e sviscerare quasi giorno dopo. Ecco allora anche Il giovane normale di Dino Risi,  Mio padre monsignore di  Antonio Racioppi, Amore e ginnastica di Luigi Filippo D’Amico, Di mamma non c’è ne una sola di  Alfredo Giannetti.

Poi nel 1975 un grave incidente d’auto costringe Capolicchio a restare lontano dal set di Profondo Rosso, il film simbolo di  Dario Argento. Per Lino Capolicchio questa sarà una rinuncia, come lui stesso ha spiegato, che gli costerà anche cara in termini di popolarità più decisa, universale. Ma Capolicchio, negli anni, riuscirà ugualmente ad interpretare anche il genere più strettamente horror e più strettamente thriller ed anche quello più strettamente popolare: La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, Solamente nero di Antonio Bido, La legge violenta della squadra anticrimine di Stelvio Massi. E con La casa dalle finestre che ridono ha inizio la collaborazione profonda con il regista Pupi Avati: Jazz Band, Le strelle nel fosso, Noi tre, Cinema!!!, Ultimo minuto, Fratelli e sorelle, Una sconfinata giovinezza, Il Signor Diavolo.

Assiduo del territorio pontino, Capolicchio è da anni una presenza costante del FondiFilmFestival, amico di vecchia data ormai dei pionieri della gloriosa associazione Giuseppe De Santis, Virginio Palazzo e Marco Grossi, dove, insieme a loro, ha promosso negli anni sul territorio pontino una serie di iniziative culturali. Piace ricordare in questo momento quella che aveva visto Capolicchio arrivare all’Auditorium di Fondi, nella manifestazione denominata “Il Mito, tra cinema, letteratura e musica”, in un recital concerto, insieme al musicista Ambrogio Sparagna, aveva letteralmente messo i brividi ai tanti spettatori presenti con il recital delle poesie di Ezra Pound. E lo ricordiamo ancora, sempre in compagnia di Marco Grossi, accolto nel piano interrato del Liceo Classico Dante Alighieri di Latina, in un momento in cui quello spazio fungeva da aula magna, dove nel salutare gli alunni aveva dato appuntamento ad un prossimo incontro, perché molte esperienze raccontate, che non aveva potuto approfondire, andavano riprese. Dunque, l’applauso degli alunni, proprio a riconoscere l’intensa cultura dell’attore, il forte interesse, anche l’estrema simpatia.

Ricorda ancora Lino Capolicchio quando, in uno dei tanti incontri di lavoro avuti con Pier Paolo Pasolini (il progetto di una incisione su disco di alcune sue poesie, non andata in porto per l’assurda ed improvvisa morte del poeta), il regista gli diceva, a proposito dei suoi capelli portati ancora molto lunghi: “Capolicchio, lei ha una fronte bellissima, perché se la copre, perché se la nasconde? Lei è un artista, non deve omologarsi”, o quando, ancora Pier Paolo Pasolini: “Capolicchio, lei ha un viso  bellissimo, ma il suo viso esprime tutta la decadenza della grande borghesia europea del novecento”; o anche quando la professoressa di italiano alle scuole medie, amava chiamarlo  “il ragazzo con la faccia di Arthur Rimbaud”.

Poi c’è l’aneddoto con Federico Fellini, la delusione di aver sfiorato di fare parte del cast di Satiricon: “Quando mi ha chiamato Fellini per il suo Satiricon  pensavo che era cosa fatta, nel senso che quando mi ha ricevuto nel suo ufficio a Cinecittà c’era la mia immagine sul muro, un bel primo piano, insieme al primo piano di Pierre Clementi, l’altro attore che doveva fare coppia me. Fellini mi disse subito che si, mi stimava e mi apprezzava moltissimo come attore, ma avevo un difetto, ero già piuttosto famoso, come così pure Pierre Clementi. Le testuali parole di Fellini furono: sono in lotta con il produttore Alberto Grimaldi. Lui predilige per questi due ruoli due attori già famosi, io al contrario li preferisco sconosciuti. Dunque se vince la linea del produttore il ruolo sarà tuo, se invece a vincere è la mia linea tu, come Clementi, non reciterai nel film. E purtroppo a vincere fu la linea del regista. Morale: non ho fatto il film”.      

D’amore non si muore è certo un libro-porzione del cinema italiano e certo rimane una porzione da non perdere. Alla Casa del Cinema di Roma, dove è stato presentato, le domande di Alberto Crespi e di Domenico Monetti, corredate poi dai ricordi e dagli aneddoti del produttore Antonio Avati e di Pupi Avati, il regista cinematografico che più di altri ha messo a dura prova il suo talento d’attore nel cinema, si sono raddoppiate grazie a quelle dei giornalisti e alle curiosità del pubblico. Perché come ci ha spiegato, in più di un’occasione di incontro, Lino Capolicchio è stato davvero diretto da registi bravissimi certamente, ma che si sono rivelati per lui, spesso, degli incubi ad occhi aperti: su tutti il suo ricordo va a Vittorio De Sica, che ha diretto Capolicchio ne Il giardino dei Finzi Contini. La severità di De Sica sul set è stata sempre ricordata da Lino, anche quella lontana sera al Liceo, come un’autentica lezione: “De Sica, più attento ai dettagli che alle grosse lacune, era sul set un autentico tiranno buono”. Tutte queste cose salgono in superficie nel suo libro, indagate e ricordate anche dai tanti ospiti che hanno accompagnato Lino Capolicchio nella rielaborazione della sua bellissima carriera.