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Interviews

Seven Women. Intervista a Yvonne Sciò

Rosita Missoni, Rula Jebreal, Fran Drescher, Alba Clemente, Patricia Field, Susanne Bartsch, Bethann Hardison: Seven Women di Yvonne Sciò racconta la determinazione e la forza di volontà che ha permesso a ciascuna di cambiare il proprio destino. In prima visione assoluta Sabato 7 Marzo alle ore 23 su Rai Storia e dall'8 Marzo online su RaiPlay

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Vorrei partire dall’attualità e, per esempio, dalle dichiarazioni di Elio Germano, che nel discorso di ringraziamento per la vittoria dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino ha dedicato il premio a chi è diverso dagli altri e, ancora, dalla reazione di Adele Haenel, che ha abbandonato la cerimonia dei Cesar in segno di protesta contro la vittoria di Roman Polanski. Ricollegandomi ai contenuti del tuo film, mi sembra che il mondo dello spettacolo, e del cinema in particolare, è in prima linea nella difesa delle minoranze.

Quando ho iniziato a pensare a Seven Women il movimento del #METOO non era ancora nato, però sentivo che il mio progetto aveva il timing giusto, che fosse venuto il tempo di raccontare un certo tipo di storie, senza però avere un atteggiamento negativo. Era inevitabile che nascesse un movimento di protesta femminile, prima o poi doveva succedere. Certo è che, rispetto alla reazione dell’attrice francese, trovo che bisogna dividere il regista dall’uomo, l’artista dall’essere umano. Poi, sai, io amo i film di Polanski, dunque se ci fosse la possibilità di conoscerlo forse dal punto di vista umano non sarei interessata a farlo, ma questo non vuol dire smettere di ammirare il suo lavoro. In generale, è importantissimo che ci sia stato il movimento del #METOO perché c’erano delle cose che andavano cambiate, non solo nel mondo del cinema ma in generale per tutte le donne. Il livello di discriminazione era diventato insostenibile. Si tratta di un modo di fare che non va bene, anche rispetto ai nostri figli. Il mio film racconta in modo non negativo esempi di donne che hanno avuto la forza di cambiare il proprio destino.

Mi sembra si possa dire che Seven Women nasca da un sentimento personale e da un’esperienza, la tua, che negli anni Novanta ti vede lasciare l’Italia per andare a vivere e lavorare negli Stati Uniti.

È vero. Io posso parlare solo di quello che conosco, per cui nel primo film, che è Roxanne Love: Magic Moments, lo faccio a proposito di persone che conosco molto bene. Si tratta di uomini e donne che mi hanno influenzato, dandomi forza quando io non ne avevo. Ci sono stati momenti in cui ero a terra e queste amiche mi hanno regalato il loro punto di vista sulle cose. Da qui la necessità di raccontare ciò che avevo imparato dalla vita. Parlando di Seven Women ti posso dire che con Fran Drescher avevo girato The Nunny e fin da subito sono rimasta affascinata dalla sua storia e da come lei sia riuscita a cambiare la sua esistenza: Franny faceva la parrucchiera a Queens e si è sposata con il suo vicino di casa, con cui è stata per tutta la vita e che poi è diventato omosessuale. Il suo esempio mi ha dato un segno di speranza: mi diceva sempre che non poteva essere qualcun altro a costruire la nostra carriera o prendere decisioni che spettavano a noi. “Prendi in mano la vita e iniziare a fare”, questa era la sua parola d’ordine.

In effetti, il comune denominatore delle tue attrici è la grande forza di volontà. La determinazione nel perseguire le proprie scelte in tempi non propizi all’emancipazione femminile ne fa un esempio nei rispettivi campi. Oggi, forse, sarebbe un po’ più facile.

Se posso dirti la verità nella vita non è mai facile. Per quanto mi riguarda, ogni cosa che ho fatto nella vita me la sono dovuta sudare. Sia quando lavoravo in Italia che in America ho dovuto lottare, niente mi è mai venuto facile, per cui, sai, ogni periodo ha i suoi problemi. Prendi Rula Jebreal: è nata in un territorio di guerra come quello palestinese. La madre si è suicidata, il padre è morto di cancro e lei è stata messa in un orfanotrofio insieme alla sorella. Ha dovuto attraversare una grande solitudine e sofferenza e il suo destino sarebbe stato un altro. Essendo molto bella sarebbe stata una sposa bambina. Al contrario, è riuscita a cambiare la sua vita.

A proposito di Fran Drescher, in uno dei passaggi più belli di Seven Women lei racconta della violenza subita e delle sua malattia. Lo fa in cucina, indossando un accappatoio. Il contrasto tra la drammaticità del contenuto e l’informalità del contesto ci permette di essere coinvolti dalla vicenda senza averne paura.

Sono partita dal fatto che la vita, così come l’amore, è piena di contraddizioni, non è mai rosa e fiori. Anche nella sofferenza c’è sempre il rovescio della medaglia e, secondo me, i contrasti sono interessanti. Con Fran stavamo conversando di cose molto delicate. Improvvisamente lei si ferma e mi chiede se avevo fame. A quel punto, in fretta e furia, gli ho sistemato il microfono sopra l’accappatoio dicendole di continuare a parlare, mentre io la filmavo. Lei inizia a girare questo lardo nel grasso e questa cosa così forte dà alle sue parole ancora più verità. È come se il fatto di cucinare, di essere intenta a eseguire i gesti più ordinaria della vita quotidiana, gli abbia dato il coraggio di raccontare i terribili avvenimenti di cui è stata vittima. Come quello di essere stata stuprata di fronte al marito e a una sua amica, sdrammatizzando l’accaduto subito dopo che era successo. Di fatto, è proprio il dolore che si è tenuta dentro ad averla fatta ammalare. E lei tutto questo lo dice cucinando, che è una cosa molto forte, soprattutto per chi la conosce solo attraverso la sua serie televisiva.

Parliamo di donne che in qualche maniera ti corrispondono. Raccontandole si sente che le loro esperienze ti appartengono. Seven Women è un film in cui c’è molto di te, per cui ti volevo chiedere quanto e in che modo?

Intanto ti ringrazio di questa considerazione, perché è andata proprio così. In ognuna di loro c’era un pezzo di me, della donna che si dedica ai figli e al marito facendo un passo indietro rispetto alla sua carriera. Per una persona di spettacolo si tratta di un passo non semplice, spesso sottovalutato. Con Fran avevo lavorato nella sua serie televisiva e quando sono stata poco bene mi è stata vicino. Con lei siamo amiche da anni.

Il tuo passaggio dall’interpretazione alla regia mi pare riassuma il senso delle scelte delle tue protagoniste. Come loro ti sei messa in discussione, prendendoti le responsabilità delle tue decisioni. Anche tu ti sei posta nelle condizioni di decidere in prima persona.

Certo, nel film non appaio, ma è come se ci fossi anche io davanti alla macchina da presa. Penso sempre che nella vita una cosa non esclude mai l’altra, cioè che per l’arte decidere di fare una cosa non ne preclude la possibilità di farne altre. Nel mio piccolo, ciò che mi interessa è di rimettermi in discussione e di lasciare qualcosa a mia figlia. Vorrei che un film come questo creasse una piccola differenza per le donne e per lei; per me stessa e per mia madre.

A proposito di una cosa che non esclude l’altra: Seven Women è girato in maniera elegante e quasi glamour. Da una parte hai raccontato delle personalità forti e intransigenti, dall’altra privilegi un’estetica che ne conserva la femminilità. D’altronde, pur al comando delle loro “imprese”, le protagoniste non rinunciano alle prerogative del loro fascino.

Assolutamente si, perché come detto in un’intervista, essere femminista non significa avere le Birkenstock e le ascelle non rasate. Trovo invece che sia molto importante essere femminili, essere donna, mostrandosi con le proprie fragilità. Credo che anche l’estetica abbia importanza: pensare che quest’ultima sia una cosa superficiale è una stupidaggine. Nel mio primo film c’era anche David Lachapelle, il quale era entusiasta dopo l’anteprima di Los Angeles, davvero contento di apparire così bello sullo schermo. Non ha mai finito di ringraziarmi per questo. La bellezza ha un senso perché è poesia e eleganza.

In effetti, il tuo film ha una bellezza elegante e una considerazione di essa non superficiale. Il che corrisponde allo sguardo con cui Seven Women si rivolge al mondo della moda, del cinema e dello spettacolo, insomma, all’universo da cui provengono le protagoniste. Per molti sinonimo di superficialità, la bellezza di Seven Women contribuisce all’unicità delle esperienze che racconti.

Si, nelle cose che fai è importante avere senso estetico senza essere superficiali. Considerare la bellezza di un’attrice come la spia del suo scarso talento è sbagliato. Si tratta di una grande limitazione. Non è che se tu racconti una storia importante della tua vita, una sofferenza o un dolore, devi essere per forza un mostro. Se sei brutta il tuo racconto non acquista più autorità. Rula Jebreal è la dimostrazione che non funziona così.

Nel caso di Rula Jebreal il contrasto tra la sua immagine e le parole che dice è molto vistoso. Pur parlando di cose molto serie non ha mai rinunciato alla sua femminilità.

È bellissima. Ti dirò di più, lei usa la sua bellezza per rendere più forti le cose che dice, per dargli maggiore visibilità. Essere donne attraenti non è un punto d’arrivo da conservare e difendere, altrimenti quello che fai è poco interessante.

Come attrice hai esordito con Carlo Verdone in Stasera a casa di Alice. Prima ancora avevi lavorato con Gianni Boncompagni. Che ricordo hai di quegli anni?

Ho un bellissimo ricordo di quelle esperienze e spesso mi dico che vorrei continuare a recitare, poi questo non succede per le difficoltà di seguire quello che già faccio e cioè di occuparmi di mia figlia e del lavoro, non ultimo quello di cercare i soldi per fare i film. Certo, come attrice mi piacerebbe fare delle cose più interessanti. Se penso da dove sono partita mi fa impressione ritrovarmi con il mio film su Rai Storia, circondata da grandi menti.

Il tuo cammino in effetti è simile a quello fatto dalle donne di cui parla il film. Nel corso del tuo viaggio sei riuscita a rivoluzionare la tua esistenza personale e lavorativa.

È vero e ne sono fiera. Il film uscirà il 7 Marzo su Rai Storia e l’8 su RaiPlay, che oramai è una grandissima piattaforma. Sono molto contenta di questo perché vuol dire che se vogliamo possiamo cambiare il nostro percorso di vita. Non è che una carriera iniziata in un certo modo escluda che possa continuare in un altro.

La carriera di regista continuerà?

Si, certo, sto girando il terzo film che ancora non ho terminato. Mi piace il racconto e farlo attraverso il cinema è quello che voglio fare.

  • Anno: 2018
  • Durata: 60'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Yvonne Sciò