Quelli di Giorgio Diritti sono personaggi in fuga dal mondo.
Lo era il contadino trasferitosi insieme alla famiglia nelle colline della Val Maria ne Il vento fa il suo giro, lo era l’Augusta di Jasmine Trinca transfuga per dolore nelle foreste dell’Amazonia in Un giorno devi andare, lo è forse più degli altri Antonio Ligabue, a partire dalla condizione esplicitata nel titolo, così come nella sequenza iniziale nella quale il protagonista guarda la realtà attraverso il buco della coperta che gli nasconde l’intera figura.
Volevo nascondermi più che raccontare la biografia del grande pittore romagnolo la vuole eludere, costringendosi a seguirne la cronologia solo per amor di patria e per corrispondere ai desideri di chi la produce.
Volevo nascondermi: una ricostruzione umana e antropologica
In effetti, la cosa migliore di Volevo nascondermi è quella di non tentare di spiegare l’avventura artistica del protagonista attraverso la creazione dell’opera, ma di farla risalire a una ricostruzione umana e insieme antropologica della sua personalità.
A differenza di Julian Schnabel che, assecondando la natura della sua arte era ricorso ai dipinti di Van Gogh per trasfigurare il paesaggio attraversato dal pittore, Diritti mette in scena la paura del mondo e il misto di attrazione e repulsione che scandisce i rapporti di Ligabue con le persone con cui viene a contatto.
Un misto di attrazione e repulsione
In questo senso, la sfida di Volevo nascondermi era data dalla capacità di non farsi intrappolare dai facili pietismi così come – e in parte lo abbiamo accennato – di dare vita a una sorta di quadro vivente, articolato sulle estetiche e sulle visioni di Ligabue.
La risposta dell’autore emiliano riesce a trovare il suo equilibrio nell’essere al tempo stesso interna ed esterno al personaggio.
Da un lato, riproducendone l’alienazione con espedienti formali in cui le alterazioni visive e del suono impresse sulle immagini (interna) fanno il paio con la dettagliata ricostruzione delle liturgie contadine e delle natura del paesaggio italiano e, in particolare, di quello rurale (esterna), attraversato da fisionomiche (grazie a scelte di casting davvero mirate) e idiomi (dialettali) attenti a rispettare la filologia delle fonti.
Elio Germano riesce a non strafare
A suo agio quando si tratta di trasfigurare la sua immagine divistica per dare voce agli umiliati e offesi, Elio Germano riesce a non strafare, ma a rimanere è soprattutto la coerenza tra la composizione delle immagini e i significati del film.
A tal proposito, vale la pensa di citare la sequenza che segue la morte del protagonista. Dal dettaglio su linee che potrebbero essere quelle di un prossimo ipotetico dipinto, la macchina da presa prende quota aprendosi su un panorama in cui a rivelarsi è l’esistenza di un’ultima creazione artistica, quello che Ligabue sta realizzando sull’arena di una spiaggia immaginaria.
La luce chiara e luminosa rende leggibili le geometrie del disegno, mentre l’uomo che vi lavora è ridotto a un puntino nascosto e però in armonia con il resto del paesaggio. Sintesi perfetta di un’arte che non può fare a meno del mondo, al punto tale di diventarne parte integrante; di scomparivi dentro, come fa il protagonista, a conclusione del suo viaggio esistenziale.