L’apprendistato, la nuova opera del regista romano Davide Maldi, rappresenta il secondo capitolo di una trilogia ancora da completare che ha, quale filo conduttore, il tema dell’adolescenza declinato nelle varie sue forme.
Dopo il primo lungometraggio Frastuono, che indagava il rapporto fra i due giovani protagonisti e la musica, ne L’apprendistato a essere al centro della vicenda sono quattro ragazzi iscritti al primo anno di una esclusiva scuola alberghiera.
In particolare Maldi sceglie di seguire dall’inizio sino alla fine del film il giovane Luca, che ne diventa così il principale protagonista.
Il passaggio dalla libertà alle regole ferree
La pellicola, presentata alla 72ª edizione del Film Festival di Locarno e nella sezione TFFdoc/Italiana del 37° Torino Film Festival, si apre con un piano sequenza nel quale la macchina da presa indugia su Luca che la mattina all’alba governa le bestie nella stalla buia illuminata esclusivamente da una lampada a mano; per unica compagnia ha il muggito degli animali e il suono del vento.
Si tratta di una scena che, insieme alla successiva che vede il giovane risalire a piedi i fianchi erti di una montagna, dà l’idea, come spiegato dallo stesso regista, “dell’abbandono di qualcosa e dell’inizio di altro”.
Infatti, improvvisamente, dopo uno stacco netto, veniamo catapultati in un mondo completamente diverso.
La scena si trasferisce presso la scuola, un austero collegio nel quale Luca e i suoi compagni trascorreranno l’intero periodo di studi che dovrà portarli a diventare camerieri per ristoranti di lusso.
Per Luca, il passaggio dalla vita sui monti a un mondo dove vigono regole ferree da rispettare, non sarà facile.
Il suo carattere, timido e un po’ selvaggio – emblematica la scena in cui lo si vede imbracciare un fucile per cacciare un cinghiale: unico momento di libertà e di ritorno alla propria vera natura – ne renderà assai complicato l’inserimento in un ambiente in cui, oltre a curare l’aspetto fisico – i capelli corti, le mani sempre pulite e ben curate, la postura diritta – l’aspirante cameriere dovrà anche modificare il proprio approccio mentale verso coloro che dovrà servire, annullando la propria personalità e mettendosi al totale servizio del cliente.
L’apprendistato: tra fiction e documentario
La sceneggiatura, scritta a quattro mani da Davide Maldi e da Micol Roubini, fa de L’apprendistato un film al confine tra fiction e documentario, facendo riandare con la mente all’ErmannoOlmi de Il posto, pellicola che, come per altro affermato dal regista romano, lo ha in qualche modo influenzato.
Maldi ripercorre quindi il primo anno di studi dei ragazzi, indagando i rapporti camerateschi che si sviluppano fra di loro e quelli con i professori, rigidi e formali. Lo spettatore segue Luca nel suo personale percorso di crescita grazie a uno stile efficace che riesce a evidenziare il contrasto fra la vita di prima, libera e spensierata, e quella irreggimentata del collegio dove il ragazzo dovrà superare la propria natura, irrequieta e non inquadrata in schemi precostituiti, per trasformarsi in un’altra persona.
Imparando ad apparecchiare con cura meticolosa la tavola, a camminare con eleganza reggendo un vassoio con una mano e, soprattutto a dimenticarsi, di fronte al cliente, di possedere qualsiasi tipo di opinione, così come enuncia al termine della pellicola uno degli insegnanti, in una scena piuttosto agghiacciante per la durezza insita nel discorso del professore.
La macchina da presa sui protagonisti
Tutto ciò è ben supportato da un montaggio che riesce a comunicare il senso di straniamento di Luca nel collegio, dalla fotografia dello stesso Maldi e dalle musiche originali di Freddie Murphy e Chiara Lee che suggellano i momenti di maggiore ansia di Luca con una colonna sonora scandita dal suono ritmico e insistente di un tamburo.
La macchina da presa si incolla sovente ai volti dei protagonisti, carpendo la loro insicurezza, la timidezza e il desiderio, represso, di lasciarsi andare alla risata sbeffeggiante dei giovani di fronte alle rigidezze degli adulti. Davide Maldi coglie il disagio di Luca, la sua difficoltà a seguire le regole e a progredire l’apprendimento utilizzando immagini metaforiche di animali impagliati, simbolo dell’assenza di vita, e sovrapponendole al volto del giovane.
Inoltre l’obiettivo coglie, nel suo sguardo, una vena di malinconia per essere stato catapultato in un mondo nel quale viene richiesto di dimenticarsi di essere sé stessi; un ambiente in cui si misura con un metro da sarto la lunghezza dei capelli e si valuta la presenza o meno di peluria sulla faccia o di sporco sulle mani.
In questo modo, Maldi riesce a comunicare il senso di inadeguatezza che prova il protagonista, con il suo spirito anarchico, al cospetto dei professori o, anche, dei compagni delle classi superiori.
L’apprendistato è un film di formazione nel quale Luca, alla fine, sceglie la propria strada.
E con uno sguardo in macchina, lo stesso che l’Antoine Doinel de I pugni in tasca rivolgeva allo spettatore, sembra dirci quale strada abbia deciso di percorrere.
Giusta o sbagliata che sia è quella dell’uomo nel quale si è, forse troppo precocemente, trasformato.