Un condensato di energia nera, di rabbia graffiante, di fango, di liquidi organici e di malvagità: Diao Yinan porta il suo nuovo film Il Lago delle Oche Selvatiche a degli estremi umani, dedicando contemporaneamente una cura alla regia quasi manieristica.
Il brutto dell’essere umano e la grazia filmica convivono nella nuova opera, la quarta di questo regista cinese, largamente attesa dopo il successo di Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno (Black Coal, Thin Ice) con cui si era fatto notare a Berlino.
Diao Yinan torna nuovamente a parlare di una periferia sregolata, sulle rive di un lago surreale, il Lago delle Oche Selvatiche: qui la legge non arriva ed è una sorta di mafia locale che ne fa le veci. I protagonisti sono gli spaccati della marginalità umana, in cinese definita jianghu 江湖. Un criminale e una prostituta che si spostano rapidi sulle rive del lago in fuga da buoni e cattivi: a braccarli sono papponi, ladri, omicidi e poliziotti che si spacciano per buoni. In questo condensato di terrore, l’unico personaggio che ci appare buono, è epilettico: l’ombra nera si è abbattuta anche su di lei, esplodendole nell’interno.
È una periferia di fango e bivacchi, rifiuti gettati per strada e rifiutati dalla società: è il jianghu della Cina
La storia è semplicemente quella di un malvivente, Zhou Zenong, colpevole nell’omicidio di due poliziotti e di aver rotto il delicato equilibrio di omertà che vige al Lago delle Oche Selvatiche. Si innesca così una furiosa caccia all’uomo che scatenerà una catena di vendette, e che è lo stesso Zhou Zenong a pilotare: poiché motivato fino all’ultimo a far sì che la taglia che pende sulla sua testa finisca nelle tasche della moglie e del figlio, gli ultimi buoni rimasti. Per realizzare il suo progetto si servirà di una “bagnante”, una prostituta di posta sul lago. Una figura manovrata dalla sete di carne per pochi spicci, che si muove eterea sull’acqua in una dimensione quasi felliniana indossando un candido cappello a tesa larga bianco.
Il regista Diao omaggia senza sosta: c’è Lynch, Orson Welles, e una pioggia così fitta che ci riporta a Blade Runner. Se l’ispirazione di fondo è dichiaratamente il noir degli anni ‘5o, decisamente l’efferatezza è del tutto contemporanea: nella sublimazione cinematografica, il film è stato girato nel distretto di Wuhan, che ad oggi battaglia quotidianamente con mostri invisibili, ma purtroppo ben più reali di quelli rappresentati ne Il Lago delle Oche Selvatiche.
Un film di atmosfere noir classiche e citazioni ai grandi registi occidentali
Diao sceglie di vivere la notte e lavorare con toni di luci contrastati e virati al giallo, giocando con le ombre e gli spazi che transitano dall’aperto e indecifrabile, al chiuso claustrofobico. La luce del giorno sembra comparire solo nel finale, ed è un dettaglio femminino, purificante, insieme all’acqua.
Se il protagonista (Zenong Hu Ge) è un criminale come tanti, che vedendo la fine che si avvicina, cerca una sua redenzione proiettandola sulla moglie, la prostituta che lo supporta (interpretata da Gwei Lun Mei) è una calamita. Lei fa da filtro con il male che minaccia la moglie di Zhou, attirando su di sé le follie carnali di tutta questa stirpe di uomini criminali. La sua presenza preserverà la donna buona e realizzerà il piano sperato. Se il denaro della taglia regala la libertà anelata da entrambe, ecco, che consolazione effimera. È tutto questo il buono a cui si può aspirare? Il soldo, quel passpartout che promette una via d’uscita. E che è sempre così presente nella società cinese, che pare vivere sull’idea che non ci sia alcuna redenzione se manca la materialità con cui viverla.
Non aggiunge altro Diao Yinan. Un po’ ci sono i suoni a parlare, un po’ una rassegnata ammissione della bruttezza del mondo e della corrosione dell’uomo. Da cui si sopravvive come si può.