L’ultimo piano : il film collettivo della Scuola Gian Maria Volonté
L’ultimo piano, il film collettivo dei ragazzi della Scuola Gian Maria Volonté, un lungometraggio maturo, basato sulla collaborazione ed il confronto, che mette in luce la precarietà esistenziale
Diana è una studentessa di giurisprudenza che si è appena trasferita all’ultimo piano in un appartamento abitato da Mattia, biker, e Flora, una barista. L’affittuario è Aurelio, ex membro di una band, che passa le sue giornate chiuso nell’appartamento a vivere di ricordi.
I tre ragazzi vivono alla giornata, seguendo una routine. Tornano nell’appartamento per dormire , non instaurano alcun rapporto l’uno con l’altra finché una sera qualcosa cambia.
L’ultimo piano, un film collettivo sulla precarietà della vita.
Scandito da studio e lavoro e dall’ascolto a ripetizione di un nastro, L’ultimo piano è la storia di quattro personaggi che non sanno di stare nel mondo.
Diana è completamente vittima del sistema universitario. Flora una ragazza madre incapace di creare una relazione con il figlio. Mattia è un biker senza alcuna prospettiva. A completarli, Aurelio, l’affittuario chiuso nei ricordi di una vita che non c’è più e in un dolore troppo grande che impedisce di scegliere di vivere o morire. I quattro non reagiscono agli eventi, portano avanti la propria esistenza come se nulla fosse.
Eppure di motivi per reagire ce ne sarebbero. La caduta di Mattia dalla bicicletta e dal sistema del precariato lavorativo che miete troppe vittime tutti i giorni. L’esame fallito per la studentessa troppo apprensiva. L’incapacità di Flora di essere aperta all’ascolto del figlio.
A potenziare questo concetto, la figura di Aurelio.
Vittima dei ricordi, fermo al suo passato. L’uomo è bloccato nell’appartamento. Non riesce ad uscire e non vuole far entrare gli altri nella sua vita. In un mondo ‘normale’, sarebbe il pretesto altrui per reagire e per cambiare. Ma ognuno è preso da se stesso. Si limita a sopravvivere.
L’ultimo piano restituisce così allo spettatore un’immagine reale, quella della società contemporanea. Si riflette e si ragiona sugli effetti fisici e psicologici indotti dalla precarietà.
Forse un azzardo per un’opera prima, ma non è così. E’ proprio del lavoro dello sceneggiatore saper scrivere che cosa si sta guardando sul grande schermo. Qui i corpi appaiono come era nelle intenzioni comunicative, complice la documentazione sullo stato del personaggio. Intervistati veri bikers, ragazze madri e studenti universitari per trasformare sogni e frustrazioni in linguaggio filmico.
Da L’amore va in città al modello Ken Loach.
Nato dall’idea di un film ad episodi, più incline alla regia collettiva, guardando a pellicole come L’amore va in città, di cui comunque è rimasta la lezione di Zavattini di uscire per le strade per scrivere. L’intenzione del gruppo di lavoro è rimasta uguale fin dal principio, non lavorare su qualcosa di canonico ma lavorare per un unicum.
Basandosi quindi sui personaggi, sul fulcro narrativo, si è assunto un metodo di lavoro grazie a cui la sceneggiatura ha avuto modo di nascere. Una scrittura lunga, con tagli e modifiche volute da tutto il gruppo, dimostrazione di un clima di fiducia. Assunto un metodo lavorativo di scrittura quasi seriale, L’ultimo pianosi è “concesso” ai suoi ragazzi, diventando un’opera collettiva unica, nel genere e nell’aspetto.
Preso a modello Ken Loach, e la sua etica, la scrittura si è sciolta sugli aspetti meccanici della vita, su quelle operazioni che si ripetono all’infinito senza assumere significato. La non quotidianità, l’assenza del futuro, spostano Diana, Mattia, Flora nel mondo, con un andamento quasi autodistruttivo che non riesce a fermarsi.
L’unica consapevolezza arriverà nel pre-finale, quando l’episodio cardine del film, sveglierà, almeno per qualche ora, ogni personaggio dalla sua condizione, muovendosi per la prima volta.
Non c’è consolazione o lieto fine, viene solo definito un momento e, non a caso, una carrellata lenta sposta l’attenzione sull’esistenza, sulla bellezza del quotidiano, e sul suo status finalmente trovato.
Gli spazi e le solitudini
Situato in una Roma geograficamente non riconoscibile ai tanti, e volutamente appartenente alla città non canonica, l’appartamento non permette l’entrata della luce al suo interno. Nella casa ci si isola dal resto del mondo. La luce è limitata, trapassa dall’esterno e conferisce un senso di opacità. Di conseguenza lo spazio, già chiuso perché interno, è una gabbia e specchio della condizione esistenziale di chi vi abita ed aperto solo nel momento del riposo, nell’intimità, quando la macchina da presa può osservare il personaggio, colto nel suo momento più vulnerabile e vero.
Denudare un personaggio ha un significato profondo e realizzare questo spoglio è un passaggio fondamentale per raggiungere il senso di una persona. Ma, come sappiamo, il momento che passa dall’addormentarsi, quindi essere veri, al risveglio, è breve. E l’indomani questi corpi rimettono la loro corazza, continuando a sopravvivere. Particolare è l’uso delle inquadrature e delle scelte di movimento di macchina all’interno della casa. Non si cercano sfarzosità tecniche ma inquadrature che permettano di accrescere il significato della scena.
La ricostruzione degli interni, nati da un grande lavoro del gruppo di scenografia, ha permesso non solo di rendere credibile e irriconoscibile un luogo più volte utilizzato nel mondo cinematografico e televisivo, ma di renderlo anche unico, e il quinto personaggio della vicenda, se non il protagonista.
Qui, dove i ragazzi credono di trovare rifugio, non si entra in contatto con nessuno. Si è soli pur essendo in molti, non ci si incontra come esseri umani ma solo come corpi. Spiegare in modo filmico la solitudine potrebbe apparire semplice allo spettatore. In realtà si tratta di un lavoro complesso in quanto, umanamente, è difficile riconoscerla e viverla.
Sfruttando l’elemento fotografico, gli individui rimangono sempre dispersi, ed inconsci di questa solitudine indotta dalla precarietà.
Aurelio: Francesco Acquaroli
Vale la pena infine spendere due parole sul personaggio di Aurelio, interpretato da un’eccellente Francesco Acquaroli.
Presentato come l’affittuario, Aurelio è la figura chiave della pellicola. Chiuso nell’appartamento, in una stanza da cui non può, o non vuole, uscire. L’uomo ogni giorno vive i tempi che furono, ascoltando a ripetizione lo stesso nastro. Quello del suo gruppo punk, i Klaxon, che hanno cessato di esistere in quell’appartamento.
A lui, a cui viene collegata la struttura musicale del film, sono connessi quasi tutti i ragazzi, a lui si rivolgono e da lui sembrano tornare ogni giorno. Sembrano perchè, troppo presi da altro, non provano neanche a chiedere quale sia il motivo per cui l’uomo non fa altro dal mattino alla sera.
Indossando solo una vestaglia, dal quale emerge questo fisico che colpisce per la robustezza e paradossalmente comunicando un benessere fisico, lascia intendere che il problema sia tutto nel suo interno.
Forse Aurelio è lì proprio per mostrare agli altri cosa accade quando non si reagisce ai traumi della vita. O forse è lì per dimostrare che siamo tutti umani e fragili. Sta di fatto che il personaggio è giusto, mai caricato e di una scrittura talmente intelligente da coinvolgere profondamente lo spettatore nel suo vissuto.
Intorno a lui è scritta la scena cardine del film.
A Flora un giorno viene affidato suo figlio, un bambino Adriano, con cui non ha mai stabilito un rapporto.
Il bambino è l’unico ad entrare in contatto con Aurelio perchè, con la sua semplice curiosità, chiede perchè Aurelio sia così.
All’improvviso, un giorno, il nastro di Aurelio si rompe. La musica e le persone smettono di esserci. Aurelio entra in piena crisi ed Adriano, pensando di essere rimasto solo esce di casa.
Mentre tutti i coinquilini cercano il bambino, Aurelio compie il grande passo ed esce dall’appartamento per trovare Adriano.
L’uomo, per la prima volta fuori casa dopo tanti anni, viene sopraggiunto da un crisi. Non sappiamo se sia panico, ansia, od entrambe.
Sappiamo solo che Aurelio sta vivendo un momento di shock. La sequenza ci restituisce questa immagine, un uomo in pieno panico. Il notturno, i piccoli ed intensi movimenti della macchina da presa che sembrano tremare assieme a lui. La paura, la suggestione, il dolore. Tutto sopraggiunge allo spettatore.
Ma ritrovare un bambino è più importante di qualsiasi momento di panico di cui si possa soffrire. E nel buio della notte, Aurelio va avanti.
Regia: Giulia Cacchioni, Marcello Caporiccio, Egidio Alessandro Carchedi, Francesco Di Nuzzo, Francesco Fulvio Ferrari, Luca Iacoella, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio, Sabrina Podda
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