Il Ladro Di Giorni: intervista al regista Guido Lombardi
Arriva su Amazon Il Ladro Di Giorni, il nuovo film di Guido Lombardi, con Riccardo Scamarcio, sul legame padre-figlio, ma anche sul senso di responsabilità tipico dell'esistenza umana. Abbiamo incontrato il regista per saperne di più!
In occasione della uscita il 15 giugno su Amazon Prime del film Il ladro di giorni rilanciamo la nostra intervista al regista Guido Lombardi.
Ispirato all’omonimo libro, sempre dello stesso autore, Il ladro di giorni propone una riflessione sul rapporto padre – figlio. Vincenzo, interpretato dall’attore Riccardo Scamarcio, è appena uscito dal carcere e desidera recuperare il tempo perso col figlio di undici anni, Salvo. Il padre afferma che “un bambino è meglio di una pistola”, in caso di eventuali fermi da parte della polizia. Tuttavia, non manca di sentimenti paterni e attenzioni. Al tempo stesso, il bambino si confronta con il padre nel suo percorso di crescita. I due ruoli sono pertanto strettamente intrecciati e speculari. Non mancano le riflessioni sulla penitenza e sulla scelta del proprio destino.
A livello cronologico, è nato prima il libro o il film?
In realtà, sono nati in parallelo. Avevo scritto questo soggetto ormai dodici anni fa: ero partito dalla voce narrante del bambino, di un undicenne. Inizialmente era a un racconto di trenta pagine, poi Nicola Giuliano mi disse: “Perché non provi a farne un romanzo?“. Da una parte, scrivevo il libro con due co-sceneggiatori, che sono Marco Gianfreda e Luca De Benedittis. Come ho anche scritto nei ringraziamenti, è come se fossero stati due vasi comunicanti.
Quali sono state invece le difficoltà che hai riscontrato nel passaggio dal libro al film, nonostante siano nati parallelamente?
Nel libro, ho provato ad ampliare quanto più possibile la voce narrante del bambino: i suoi pensieri, i ricordi, le sue riflessioni. Nel frattempo, scrivendo le varie stesure della sceneggiatura, sapevo che sarebbero stati inevitabilmente persi. Da una parte, era più presente il lato emotivo del bambino che racconta. Dall’altra parte, c’era la volontà di utilizzare il mezzo cinematografico con tutte le sue caratteristiche. Ho dovuto ridurre ad esempio i dialoghi per far parlare di più le immagini. È quello che in effetti è successo: il romanzo è molto più esaustivo. D’altro canto, il film si nutre dell’impatto emotivo delle immagini in quanto tali, anche grazie alle parole e alle musiche. Quest’impatto spesso supera, spero, quello derivato dalla pagina scritta di un libro.
Ad esempio, mi verrebbe da pensare all’immagine del pirata che si ripete. Il bambino è come se venisse affascinato da un mondo che ha conosciuto prevalentemente sui libri. Allo stesso modo, il padre scopre un mondo differente dal suo: quello dell’innocenza del figlio.
Il bambino è come se fosse cresciuto in una sorta di bambagia da un certo punto della sua vita in poi, in una piccola gabbia d’oro. Ha conosciuto la linearità della vita con gli zii, ma anche la scuola, lo sport. Quando si ritrova davanti questo genitore che aveva smarrito all’età di quattro-cinque anni, è come se avesse di fronte un pirata.
Esiste un’affinità tra il rapporto di Vincenzo e Salvo, dove il figlio scopre attraverso il padre un lato di sé più selvaggio, e quello della bambina nel film Figlia Mia di Laura Bispuri con la madre naturale. Se in quest’ultimo la regista esplora il rapporto madre e figlia, in Il Ladro Di Giorni hai sviscerato il legame tra padre e figlio.
Quello del padre è il mondo con cui ci si confronta quando si cresce, in effetti. Per lo meno, è quello che accade a chi riceve un’educazione borghese. Quando tiri fuori la testa dal sacco e scendi per strada, ti ritrovi di fronte una realtà che avevi immaginato solo nei libri. E i libri diventano, dunque, i tuoi strumenti per interpretare la realtà. C’è quindi il ritorno dell’isola del tesoro, l’immagine dei pirati.
Come mai hai deciso di ambientare una storia in Puglia?
C’è, come sempre, un’esperienza di vita alla base. Ho accompagnato, come cameraman, un gruppo di tour operator americani. Ho iniziato pertanto a nutrire una grande ammirazione per questa terra. Il mio co-sceneggiatore è pugliese: Luca De Benedittis è di Casarano, ad esempio.
Da dove nasce l’idea dell’inserimento della modella d’arte?
Ho inserito un riferimento a Lolita, a Nabokov. Ho voluto rappresentare una persona ossessionata dalla bellezza di questo fiore che sta per sbocciare. Per questa sua ossessione, finisce per inguaiare anche altre persone. Nel finale, ad esempio, vediamo Vincenzo che è una persona che non si è mai assunto una responsabilità. Per me, assumersi delle responsabilità significa crescere e diventare un uomo e un padre. Si rende conto di quanto sia stato paradossale il motivo per cui lui è uscito in prigione. Acquisisce una sorta di illuminazione non spiegata, che Riccardo Scamarcio ha reso molto bene.
È come se anche il bambino, nel finale, fosse cresciuto. È evidente nelle sue parole.
Il bambino è veramente straordinario. Quella scena è stata girata alla fine della seconda settimana, era da poco entrato in questo mondo del cinema. Io ho la sensazione di vedere un bambino più grande: ha recuperato il coraggio che il padre non era riuscito a dargli.
Nelle parole finale, il bambino afferma che il vero “ladro di giorni” è il padre: Vincenzo.
Esatto. Si rende conto che il padre ha raggiunto quella consapevolezza, quando ha deciso di non uccidere il professore. È lui che attraverso la rapina, facendo il trafficante i droga, ha deciso il suo destino. La colpa è solo sua.
Il Ladro Di Giorni è stato presentato alla Festa Del Cinema di Roma. Cosa ti rimane di questa esperienza?
È stato sicuramente molto bello l’applauso finale, frutto di un accumulo emotivo. C’erano alcune persone che piangevano in sala.