Processo a Fellini: Giulietta e Federico, un legame indissolubile ma travagliato
Se lo spettacolo è nel suo complesso gradevole e ben fatto, a non convincere sono le condizioni di possibilità della sua messa in scena. Tuttavia, questo vizio strutturale non impedisce di consigliarne la visione
Mosso dall’amore per Federico Fellini e il suo cinema, chi scrive ha ritenuto opportuno, sebbene non sia il suo ambito di competenza specifico, assistere allo spettacolo teatrale, di cui si è molto parlato, Processo a Fellini, andato in scena dal 21 al 26 Gennaio al Teatro Off/Off di Roma. Scritto da Riccardo Pechini, il testo non dà corpo, come poteva far presagire il titolo, a una sorta di messa alla berlina post-mortem del grande regista, piuttosto tenta di illuminare il rapporto complesso che questi ebbe con la compagna di sempre, una Giulietta Masina che visse all’ombra dell’ingombrante consorte, svilita, forse (il forse è d’obbligo, perché nessuno può davvero sapere cosa provasse la protagonista de La strada e de Le notti di Cabiria), da un uomo che, spesso altrove e non indifferente all’universo femminile, la trascurò sotto diversi punti di vista.
La regia di Mariano Lamberti è probabilmente il punto di forza, laddove, nonostante una scenografia minimalista, non pochi sono i passaggi in cui lo spettatore è catturato, emotivamente e visivamente, da un gioco di luci che crea atmosfere avvolgenti, che restituiscono in maniera imperiosa lo stato emotivo della protagonista (Caterina Gramaglia). L’idea giusta, poi, più in generale, è stata quella di far diventare emblematica la figura di Giulietta, universalizzando una situazione specifica in direzione della condizione della donna, spesso ridimensionata al ruolo di appendice maschile. Condivisibile anche la decisione di aver ripreso alcuni stralci di dialoghi dei film di Fellini, laddove già in essi era stato problematizzato il rapporto con Giulietta.
Se, quindi, c’è senz’altro del buono in Processo a Fellini, ciò che gli si può contestare è la pretesa di aver voluto proporre, come hanno dichiarato gli attori protagonisti (l’altro interprete è Giulio Forges Davanzati), una sorta di 8½ al femminile. Prima di tutto perché la versione dell’altro sesso l’aveva già realizzata lo stesso Fellini con Giulietta degli Spiriti (1966), in cui veniva messa in scena proprio la vita interiore della moglie, tracciando un percorso attraverso cui giungere a una sospirata liberazione. Federico Fellini era un uomo troppo intelligente e sensibile per non accorgersi – o non dare il dovuto peso – del travaglio emotivo di Giulietta e quel film dimostra quanto egli avesse cercato, mosso da un genuino sentimento, di indicarle una via per tentare di cambiare l’esito di una sorte a cui sembrava fatalmente destinata. Allora, pensare di bacchettare il regista dopo tanti anni risulta, tutto sommato, abbastanza discutibile.
Ma ciò che più desta perplessità è la premessa dell’operazione: come si può credere di aver ben messo a fuoco la sfera emotiva di una donna, tra l’altro assai a posteriori? Il rischio, quindi, non è solo quello di aver organizzato un processo senza possibilità di appello a Fellini, quanto, soprattutto, di aver fatto un torto a Giulietta Masina, nella misura in cui il suo vissuto è stato, per forza di cose, arbitrariamente interpretato (e forse frainteso), dato che non esistono fonti certe a cui rifarsi.
Insomma, se lo spettacolo è nel suo complesso gradevole e ben fatto, a non convincere sono le condizioni di possibilità della sua messa in scena, laddove il nesso di causalità filologica cortocircuita necessariamente. Tuttavia, questo vizio strutturale non impedisce di consigliarne la visione, tenendo però ben presente quanto si è finora evidenziato.