Potendo contare su materiali inediti, quali foto e registrazioni audio, Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera fa del punto di vista del grande cineasta il collettore di immagini e parole volte a ricostruirne l’esistenza e l’opera cinematografica. Del film abbiamo parlato con Andrej A. Tarkovskij
Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera è costruito su un incrocio di sguardi: se il tuo si rapporta al celebre regista di cui peraltro sei il figlio, nel documentario c’è anche quello di tuo padre che si rivolge al proprio genitore. Qual è stata la suggestione che ti ha spinto verso questa direzione?
Il rapporto tra mio padre e mio nonno Arsenij è fondamentale per capire l’opera del primo: senza di lui il Tarkovskij regista non ci sarebbe mai stato perché il linguaggio poetico di Arsenij e la sua visione del mondo si sono in qualche modo reincarnate nell’opera di mio padre. Volevo sottolineare questa relazione non solo per motivi di parentela, ma anche per gli aspetti culturali e spirituali che mio padre ha ereditato dal proprio genitore che a sua volta era figlio di uno dei grandi esponenti della lettura russa a cavallo tra Ottocento e Novecento, il cosiddetto “secolo d’argento russo”, artefice della rinascita filosofica del ventesimo secolo. Era importante far vedere questo legame per far capire allo spettatore l’importanza di una tradizione alla quale mio padre è rimasto sempre legato.
Nel film evidenzi come nel percorso umano e artistico del regista sia impossibile scindere la vita dall’arte. Una caratterista che fai sentire anche attraverso il fatto di collegare le immagini dei suoi film al resoconto esistenziale del regista, con il privato che commenta il pubblico e viceversa. Esisteva da parte tua questa volontà?
Si, certo, assolutamente perché mio padre era un’artista a 360 gradi, incapace di distinguere tra vita e arte; continuava a lavorare sui film in ogni momento delle sue giornate, sul set come in famiglia. I monologhi che si sentono nei film spesso nascevano nell’ambito della cerchia famigliare, seduti a tavola o in salotto. Parlare della vita di Tarkovskij così come dei suoi film è la stessa cosa. Lui soleva dire che un’opera per convincere lo spettatore deve parlare di esperienze vissute in prima persona. Non si può fingere o fantasticare e poi aspettarsi che qualcuno sia così stupido da credere nella verità di tali racconti. Vivere le esperienze e condividerle è l’unico modo per toccare il cuore dell’altro.
Nel costruire quello che potrebbe essere un testamento artistico e spirituale del regista scegli di lasciare fuori campo il dolore provocatogli dal problema di confrontarsi con le censure del governo russo. Ne parli, lo comunichi allo spettatore, ma per lo più lo escludi dalla visione.
Non è qualcosa che nasce dalla mia volontà. A proposito della libertà dell’artista e della persona, nel film c’è una bellissima frase in cui si dice che la libertà c’è stata data in quanto essere spirituali dotati di anima e di identità. Ciò equivale a dire che non può essere tolta, in quanto intrinseca all’essere umano. Dunque, lui viveva la sua condizione di artista in Unione Sovietica in questi termini. Cosciente delle difficoltà, la sua grandezza è stata quella di realizzare le sue opere, sette in tutto, in una condizione in cui era impossibile farlo. Questo ci dice della convinzione e della fede nella sua arte. Riuscire a convincere gli studi a girare i film che ha fatto è stato qualcosa di miracoloso, se si pensa all’epoca in cui vennero realizzati. Tarkovskij era ben conscio della realtà circostante e dei problemi che apportava alla sua creatività, però non si faceva nessuna illusione, neanche sull’Occidente, perché se in Unione Sovietica il problema era la censura, da voi a rendere il rapporto tra produzione e regista altrettanto crudele erano le questioni economiche. Da questo punto di vista, la libertà creativa è stata sempre qualcosa con cui si dovette scontrare, anche nella produzione dei suoi film.
Infatti, la bellezza del tuo film è quella di riuscire a mettere in scena questa libertà attraverso immagini che visualizzano lo scarto tra le restrizioni del contesto in cui esse nascono e l’autonomia del pensiero del loro autore. Tarkovskij diceva che la prigione fisica non impediva all’uomo di continuare a essere libero.
Tarkovskij non ha mai accettato di fare un film che andasse contro il suo modo di vedere. Fare soldi e blandire il potere non sono mai stati cose che gli sono interessate. Per lui l’autonomia era l’unica condizione possibile in grado di far sentire l’artista realizzato, coerente con se stesso e i propri ideali. Delle difficoltà ne ho parlato e mi riferisco al periodo di Nostalghia in cui di fatto il regista fu costretto a rimanere in Italia. Le tribolazioni facevano parte del quotidiano, ma Tarkovskij era cosciente che ogni artista è sempre un passo avanti rispetto agli altri, essendo quest’ultimo chiamato prima degli altri a sondare terreni inesplorati.
A proposito della solitudine dell’artista, sottolinei come Tarkovskij si sentisse incompreso non solo dalle autorità sovietiche ma anche da colleghi e critici, nella consapevolezza che l’opera d’arte di per sé non può essere spiegata.
Nei suoi dibattiti si soffermava spesso sul mistero dell’immagine assoluta e indivisibile. Cercare di analizzarla secondo lui faceva perdere contatto con il cuore dell’opera. Nelle discussioni affermava di come i film bisognasse prima di tutto sentirli, entrando in empatia con il sentimento e la compassione dell’autore. Tarkovskij diceva che per capire le sue opere non ci voleva una laurea ma, piuttosto, un cuore e un’anima sensibile, capaci di stabilire un rapporto interiore con quello che filmava.
In questo senso, è esemplare l’episodio della donna delle pulizie capace di spiegare Lo Specchio come gli addetti ai lavori non avevano saputo fare.
Si, è una storia vera che lui citava spesso. Se ricordi il suo libro, Scolpire il tempo, inizia con le lettere dei suoi ammiratori, gente per lo più appartenente alle classi più umili, come appunto la donna delle pulizie. Loro meglio di altri hanno saputo capire e interpretare i suoi film – e nel caso specifico, Lo specchio –, molto più della critica, rea di “analizzare senza sentire”, di non guardare i suoi film come potrebbe farlo un bambino innocente, e cioè senza nessuna barriera, né eredita culturale o educazione. Tutte cose che di norma creano ostacoli alla comprensione. Invece di prendere l’autore per il manico, interpretandolo in un modo o nell’altro, bisognava “sentire” l’immagine senza cercare di decifrarla, stante la sua indivisibilità.
A proposito del rapporto con il pubblico, nella parte finale del documentario Tarkovskij afferma come una delle conseguenze più dolorose del suo esilio sia quella di non poter più parlare con quello che riteneva essere il suo pubblico d’elezione.
Esatto, e questo è molto importante da capire. Per Tarkovskij il pubblico era tutt’altro che stupido e rispettarlo significava non abbassare il livello del film per farlo piacere a tutti. Al contrario, pensava bisognasse tenere il livello alto perché ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto a capire e a seguire il filo del discorso. Secondo me, questo dimostra grande attenzione verso lo spettatore, perché il regista non crea per se stesso ma per il proprio popolo. Devo però aggiungere che i film di Tarkovskij sono amati tanto in Russia quanto negli altri paesi perché essi parlano a quelle parti dell’essere umano comuni a tutti. Chiaramente, le tradizioni russe presenti nella sua opera possono non essere colte al di fuori del suo paese, ma questo non impedisce ai suoi lavori di parlare anche all’Occidente.
L’inizio del film fa riferimento a un altro inizio, che è quello della vita. Tarkovsky dice, infatti, che un artista si nutre della propria infanzia per la durata dell’esistenza e che la natura della sua arte dipenderà dalle esperienze avute in quel preciso spazio temporale. Il cinema come frutto del ricordo emotivo diventa recupero del tempo perduto.
Si, per lui il tempo era fondamentale e, dunque, non è un caso che si esprimesse attraverso il cinema, l’unica arte capace di registrare il divenire del mondo e, volendo, di riproporlo all’infinito. I giovani che hanno visto Tarkovskij. Il cinema come preghiera hanno voglia di tornare ai suoi lavori, e per me è una grande soddisfazione constatare quanto i suoi film siano ancora attuali. Mentre montavo li ho rivisti per l’ennesima volta, fotogramma per fotogramma, trovandovi ancora qualcosa di nuovo: non invecchiano, non hanno un tempo di scadenza e mostrano sempre una novità e una freschezza incredibili. Come succede con le grandi opere d’arte è difficile spiegare perché, ma così è.
Due frasi citate nel documentario meritano un commento a parte. Nella prima, che dà il titolo al film, Tarkovskij spiegava il modo di porsi del regista, uguale a quello del fedele che (inginocchiandosi) di fronte a Dio riesce a pregare con le giuste parole, quelle che poco prima non sapeva di avere in mente. Nella seconda, sintesi perfetta della tensione presente nei suoi film, chiariva, invece, come il regista nel suo lavoro debba con una mano mantenere il contatto con la terra e con l’altra protendere all’infinito.
Tarkovskij diceva sempre che siamo fatti di materia e, in effetti, il cinema su questa materialità si basa, considerando che persino i sogni di cui i suoi film sono impregnati erano frutto di un’esperienza personale. Il concetto di preghiera riguardava l’atteggiamento di grande umiltà, simile a quella dei grandi pittori di icone, i quali non firmavano le proprie opere, considerandole una specie di offerta a Dio e alle persone. Per Tarkovskij il cinema non era solo un fine ma anche un mezzo di conoscenza, uno strumento di ricerca personale per trovare risposte fondamentali. Era qualcosa che serviva anche a lui come uomo per avvicinarsi il più possibile all’assoluto.
Tarkovskij diceva che un’opera d’arte per essere tale presuppone che il demiurgo non faccia sentire la sua presenza. Mi sembra che anche tu lo faccia, perché nel film immagini e parole si susseguono in una sorta di “eyes wide shut”, in cui, come per magia, sogno e realtà si mescolano all’interno di un tempo indefinito. Da questo punto prospettiva, mi sembra che attraverso l’invisibilità della regia tu abbia voluto corrispondere alla lezione di tuo padre.
Ti ringrazio per aver colto la mia intenzione. Chiaramente, ci sono sempre delle scelte a monte, una selezione, ma una volta entrato nel ritmo e nel tempo dei suoi film – che poi erano quelli dei suoi occhi e della sua anima – diventava semplice seguirlo, perché si trattava di un’opera musicale, con la sua cadenza. Il montaggio segue questo percorso, diventando il canovaccio di una struttura portante a cui sovrapporre l’immagine. Si tratta di un lavoro partito dal montaggio audio e poi completato con le immagini. L’assemblaggio del sonoro è stato la prima fase, poi, nella seconda, si è trattato di mettervi sopra le immagini dei film e le riprese da me effettuate nei posti dove questi erano stati girati.
Per contro, la tua presenza si vede nella composizione poetica della sequenza conclusiva, come le carte ancora sparse sul tavolo e un foglio inserito nella macchina da scrivere nella casa di Firenze, l’ultima abitata da Tarkovskij, a sottolineare la storia di un cammino precocemente interrotto dalla morte del regista. E, a seguire, il piano sequenza che ci porta al di fuori della finestra, sul paesaggio naturale e su quel cielo a cui così spesso si rivolgeva il suo sguardo.
Si, certo, è l’ultima casa che poi è anche la mia; in qualche modo, è l’ultimo volo della sua immaginazione, di un ricordo di lui che mi permette di chiudere il cerchio riconducendomi all’infanzia e a quel mondo dell’innocenza e della pienezza dell’anima. Mio padre diceva che nel corso dell’esistenza bisogna cercare di innalzare il proprio livello spirituale; ne nasciamo già ricchi, ma se lo aumentiamo abbiamo raggiunto qualcosa nella vita. Quindi ho voluto tornare indietro nel tempo e ai suoi ricordi della primissima età.
In una recente conversazione, Pietro Marcello faceva notare come oggi nel cinema italiano e non solo sia venuta a mancare la presenza del paesaggio naturale. Per contro, nei film di Tarkovskij la natura è centrale e risponde al bisogno di spiritualità dell’uomo costretto a vivere in una società sempre più materialista.
Ma, infatti, il film rappresenta anche la mia reazione a quello che sta succedendo nel cinema contemporaneo. Pensavo che fosse il momento di riparlare di argomenti dimenticati da produzioni votate quasi esclusivamente all’intrattenimento in un settore nel quale solo pochi registi riescono a fare opere totalmente indipendenti. A dettare legge è il guadagno, mentre l’artista – nel cinema così come nell’arte contemporanea – è spinto dal proprio edonismo e dall’idea di mettersi in mostra il più possibile. In questo dimenticando il compito della vera arte, che è quello di farsi strumento di conoscenza e mezzo di crescita spirituale. Nel documentario il regista parla molto della natura e lo fa soprattutto a proposito di Solaris, film che avrebbe voluto ambientare interamente sulla terra, ritenendo inutile la presenza di navi spaziali e viaggi interstellari, cosa che poi Stanisław Lem (autore del romanzo da cui è stato tratto il film, ndr) non ha voluto. Ma proprio questo suo legame con la materialità dell’uomo e del “toccare la terra” era un modo per dire che, pur dimenticandocene, siamo figli di questo pianeta. Tra l’altro, per me è stata una scoperta interessante sentirlo parlare – considerato che lo faceva nel 1982 – di ecologia e dell’apocalisse dell’umanità, quando ancora questi discorsi non erano esposti con l’anelito e l’intensità con cui lo si fa oggi.
Sacrificio parla del rischio di catastrofe ecologica precorrendo i tempi. La visionarietà era un’altra caratteristica dei suoi film.
Infatti, e questo ancora prima di ciò che si è poi verificato, quindi, sì, aveva un’enorme capacità di prevedere le cose, tipico dei grandi artisti che, in quanto tali, sono sempre un po’ in anticipo sui tempi. Poi, come diceva lui, costoro non sono in grado di cambiare la situazione ma rappresentano solo una specie di allarme, una spia che si accende per mostrare all’umanità dove ha sbagliato e in che direzione bisogna andare.
Non posso fare a meno di chiederti se, secondo te, Tarkovskij abbia lasciato degli eredi. A suo modo poteva esserlo Krzysztof Kieslowski, oggi chi potrebbe essere considerato tale?
Tarkovskij è talmente unico da non poter essere imitato. Si può invece trovare una vicinanza più o meno spirituale, come potrebbe esserla quella con Krzysztof Kieslowski, e ancora di più con Robert Bresson, un regista a cui mio padre si sentiva vicino e che lavorava nella sua stessa direzione. Nella preparazione dei film ha avuto con lui un dialogo ideale e costante, ma in generale quando mi chiedono chi è l’erede di Tarkovskij dico che non ce ne sono. Molti vi si inspirano e questo è già importante. Un artista è talmente personale da trovare sempre il proprio linguaggio. Imitare è pericoloso perché il pubblico se ne accorge subito.
Ricordando che il tuo film ha il pregio di avere molti materiali inediti, tra cui conversazioni e dialoghi lasciatici dal regista, mi preme dire che tu sei anche a capo dell’Istituto internazionale Tarkovskij, responsabile tra le altre cose della pubblicazione di alcuni dei libri più importanti dedicati al regista e, non ultimo, della produzione del lungometraggio in questione.
Si, anche questo film è frutto del lavoro sugli archivi che abbiamo a Firenze, in cui sono raccolte e codificate – grazie anche all’aiuto della sovrintendenza – più di 600 cento ore di materiale audio e molte cose sono ancora da pubblicare.
Esiste l’intenzione di aprire al pubblico la consultazione di questo materiale?
L’intenzione c’è, stiamo lavorando con il Comune, sperando di riuscire a trovare un locale dove poter ospitare persone e creare un’esposizione permanente. A Firenze esiste ancora lo studio dove lui montò Sacrificio. Per il momento riceviamo studenti e ricercatori per lavorare sugli archivi, però ancora non siamo in grado di accogliere il pubblico. Stiamo lavorando in questa direzione.