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Deserto rosso: i colori di Michelangelo Antonioni, con Monica Vitti

Pier Paolo Pasolini: “Ho visto finalmente il Deserto rosso e mi è sembrato un bellissimo film. Nel Deserto rosso Antonioni non appiccica più, come aveva fatto nei film precedenti, la sua visione del mondo a un contenuto vagamente sociologico (la nevrosi da alienazione), ma guarda il mondo attraverso i suoi occhi

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Deserto rosso è un film del 1964, nono lungometraggio diretto da Michelangelo Antonioni, il primo a colori.

Qualche aneddoto sulla storia di Deserto rosso

Inizialmente doveva intitolarsi Celeste e verde. È la prima collaborazione con Carlo Di Palma come direttore della fotografia e l’ottava ed ultima con Giovanni Fusco come autore della colonna sonora. Un aspetto fondamentale del film è la grande sperimentazione cromatica, la ricerca sul colore, premiata con il Nastro d’argento per la migliore fotografia.

Così si espresse in merito Antonioni durante la conferenza stampa tenuta a Venezia, dopo la proiezione del film: «La storia è nata a colori, ecco perché dico che la decisione di fare il film a colori non l’ho mai presa, non era necessario prenderla. Nella vita moderna mi pare che il colore abbia preso un posto molto importante. Siamo circondati sempre più da oggetti colorati, la plastica che è un elemento molto moderno è a colori e la gente si sta accorgendo che la realtà è a colori. Nel film ho cercato di usare il colore in funzione espressiva, nel senso che avendo questo mezzo nuovo in mano, ho fatto ogni sforzo perché questo mezzo mi aiutasse a dare allo spettatore quella suggestione che la scena richiedeva

Il film si aggiudicò il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1964. Scritto e sceneggiato da Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra, Deserto rosso è interpretato da Monica Vitti, Richard Harris, Carlo Chionetti, Xenia Valderi, Rita Renoir, Aldo Grotti.

La trama

La vita di Giuliana, giovane moglie di un ingegnere, potrebbe scorrere senza problemi, ma la donna non è felice. A causa dello shock subìto in un incidente d’auto, è vittima di una crisi depressiva ed è tentata dall’idea del suicidio. Incontra Corrado e ne diviene l’amante, ma questo non basta a guarirla.

Pier Paolo Pasolini su Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni

Ecco: io ero molto, come si dice, prevenuto, contro il Deserto rosso. Dall’interno e dall’esterno. Interno: mi era piaciuta assai poco La notte, e mi era parso detestabile L’Eclisse. In queste opere c’erano a mio avviso due contenuti: uno formalistico (cioè la stessa forma come contenuto) e uno pretestuale ( i problemi della società moderna a un livello avanzato), estranei l’uno all’altro. Sicché il primo veniva ridotto dal secondo a un’esercitazione stilistico priva di cultura, estetizzante come poteva esserlo in un documentarista degli anni Trenta: e il secondo veniva ridotto dal primo a una problematicità generica e inattendibile. Così il contenuto formalistico mi pareva un sottoprodotto provinciale della cultura francese; e il contenuto sociale sostanzialmente dilettantesco.

Mi sbagliavo. Ho visto finalmente il Deserto rosso e mi è sembrato un bellissimo film. Ci sarà stata anche in me una disposizione soggettiva favorevole. Per esempio, sono entrato nella sala parigina (altro elemento favorevole) sapendo già che il dialogo non mi sarebbe piaciuto (quel tanto di goffo, imbarazzante e un po’ ridicolo, che trova riscontro solo in certi endecasillabi di Quasimodo…) e perciò ero disposto a tacitarlo, a non eccepirlo, ecc, ecc.

Un’analisi approfondita

Credo però che non giochino elementi passionali di nessun genere nel mio giudizio generale. Tanto è vero che non vorrei soffermarmi sui punti “poetici” del film, e ce ne sono molti, e convincenti. C’è una profonda, misteriosa, a tratti altissima intensità, nel formalismo che accende la fantasia di Antonioni. E che la base del film sia totalmente questo formalismo, finalmente rigoroso e condotto fino alla poesia lo dimostra un’occhiata al montaggio: in cui si rivelano la preminenza assoluta del mondo come spettacolo estetico sulla storia e sui personaggi. Queste due operazioni sono:

I) L’accostamento successivo di due punti di vista di diversità insignificante su una stessa immagine: cioè il succedersi di due inquadrature che rappresentano la stessa situazione, prima da vicino, poi un po’ più da lontano, o prima frontalmente e poi un po’ obliquamente; oppure addirittura sullo stesso asse ma con due obiettivi diversi. Ne nasce l’insistenza che si fa ossessione, in quanto al mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose.

II) La tecnica nel far entrare e uscire i personaggi dell’inquadratura, per cui, in modo talvolta addirittura ossessivo, il montaggio consiste in una serie di “quadri” che dire informali, dove entrano i personaggi, dicono e fanno qualcosa, e poi escono, lasciando di nuovo il quadro alla sua pura, assoluta informalità; cui succede un altro quadro analogo, dove i personaggi entrano ecc. Sicché il mondo si presenta come una mistica bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma adattando se stessi a quella bellezza, anziché sconsacrala con la loro presenza storica.

La visione del mondo in Deserto rosso

Nel Deserto rosso Antonioni non appiccica più, come aveva fatto nei film precedenti, la sua visione del mondo a un contenuto vagamente sociologico (la nevrosi da alienazione): ma guarda il mondo attraverso gli occhi di una malata (l’incidente automobilistico credo non sia stato casuale: ma è stato probabilmente un tentativo di suicidio della donna).

Attraverso questo meccanismo stilistico, Antonioni ha liberato se stesso: ha potuto finalmente vedere il mondo coi “suoi” occhi, perché ha identificato la sua visione delirante di estetismo, con la visione di una nevrotica. Tale identificazione è in parte arbitraria, è vero, ma l’arbitrarietà in questo caso fa parte della libertà poetica: una volta trovato il meccanismo liberatorio, il poeta può inebriarsi di libertà. Non importa se è illecito far coincidere i “quadri” con cui il mondo si presenta a un poeta nevrotico; quel tanto che in questa operazione c’è di illecito diventa il fondiglio non poetico e non culturale del film; quel tanto che invece c’è di lecito è la sua “ebbrezza poetica”.

L’importante è che ci sia una sostanziale possibilità di analogia tra la visione nevrotica di un poeta e quella del suo personaggio nevrotico. Non c’è dubbio che tale possibilità di analogia c’è. E la sua contraddittorietà è poi un fatto culturale, che anziché oggettivarsi nel personaggio, si oggettivizza nell’autore. Sicché appunto per la straordinaria riuscita formalistica non è stavolta nemmeno illecita e inattendibile l’impostazione del tema sociologico dell’alienazione.

Qui per una riflessione ancora più approfondita del film

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