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Cento anni di Fellini, Fellini per sempre

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Non c’è fine. Non c’è inizio. C’è solo l’infinita passione per la vita.”
(Federico Fellini)

 

Non si parla d’altro in questi giorni, e per fortuna. Il 20 Gennaio del 1920 nasceva un artista che avrebbe radicalmente trasformato l’immaginario degli spettatori di tutto il mondo. Un regista amato da Stanley Kubrick, il cui film preferito in assoluto era I vitelloni, venerato da David Lynch, che non ha mai smesso di rendergli omaggio, e stimatissimo da Ingmar Bergman, che lo considerava un suo fratello spirituale. Ricorre il centenario della nascita di Federico Fellini e ovunque proliferano le iniziative atte a celebrarne il genio. Chi scrive, in particolare, gli deve tutto. Quando appena adolescente si imbatté nel suo cinema fu amore a prima vista. Allora c’erano solo le videocassette, non si potevano scaricare i film o vederli in streamig, Amazon e simili non esistevano e, quindi, si trattava di peregrinare tra videoteche e negozi specializzati, nella speranza di trovare anche quei pochi titoli che ancora mancavano all’appello. Appena diciottenne, grazie a una fidanzata londinese di allora, riuscì a farsi recapitare, rigorosamente in lingua inglese e senza sottotitoli, And the ship sails on (E la nave va), ed è ancora vivissimo il ricordo della gioia di quando il film arrivò a destinazione.

Fellini ha costituito per lo scrivente un aspetto decisivo della sua vita, laddove è proprio grazie a lui se ha fatto del cinema la propria missione, e allora chi legge scuserà l’entusiasmo e la mancanza di quel giusto distacco normalmente richiesto a un critico cinematografico. D’altronde, su Federico Fellini sono stati versati fiumi d’inchiostro, non si ha la presunzione, in quest’occasione, di aggiungere qualcosa, piuttosto, come la ricorrenza impone, di celebrarlo, magari a partire dal vissuto personale.

Il cinema di Federico Fellini è immersivo e avvolgente, laddove l’onirico messo in circolo attraverso un immaginario portentoso abbaglia l’occhio di chi guarda, penetrandone l’inconscio, toccando corde profonde, frastornandolo e deliziandolo. Il suo anti intellettualismo non è civetteria quanto il desiderio di liberarsi dal fardello del significato in favore della magica eccedenza del significante. Ogni volta, come un palombaro temerario e guascone, Fellini si cala negli abissi dell’animo umano, là dove il linguaggio cortocircuita, balbetta, e ciò che viene alla luce non può essere detto fino in fondo, piuttosto se ne può fare esperienza. Alcuni suoi film in particolare, nella fattispecie Satyricon e Il Casanova, incarnano magnificamente l’essenza di questa modalità di rapportarsi alla vita e all’arte. Lì Fellini probabilmente dà il meglio di sé, divenendo una sorta di “mediatore evanescente”, perché sparisce quasi davanti alla sovrabbondanza delle immagini messe in circolo, nel senso che l’inconscio – junghianamente collettivo – viene a galla senza filtri e la parola, che pure resta, non è più il centro della narrazione, piuttosto orpello decorativo di secondaria importanza.

Se il Guido Anselmi di 8 ½ aveva dato inizio al grande viaggio felliniano è nei film degli anni Settanta che troviamo il felice esito di quella meravigliosa partenza: Marcello Rubini, Guido Anselmi e, poi, un più generico Snaporaz, una sorta di irriverente adolescente, uno che della maturità non sa che farsene, perché troppo attratto dalla vita e dal bisogno di immergersi in essa. Ma già ne Lo sceicco bianco erano ben visibili i tratti di una poetica (come dimenticare l’arrivo nella pineta della sposina e Sordi che si trastulla su un’imponente altalena, quasi provenisse da un altro mondo?) che nel corso del tempo si sarebbe felicemente sviluppata, fino a debordare in una straordinaria iconografia indelebilmente impressa in tutti noi.

Il Teatro 5 a Cinecittà, i set sontuosi con scenografie ineguagliabili, le comparse, con le loro facce assurde e perturbanti, le maestranze, i tecnici, i curiosi, i produttori: quando si pensa a Fellini non si può fare a meno di evocare anche tutta questa umanità che spesso e per lo più rimane fuori campo. Ecco, insomma, quando si pensa a Fellini si pensa al cinema nella sua essenza, ma anche nella sua esistenza, come amavano distinguere i filosofi medievali. Magnifico, in tal senso, uno degli ultimi film, Intervista, in cui il regista ci conduce per mano nella bella confusione (“La bella confusione” era, tra la’altro, il titolo che in un primo momento Fellini aveva pensato per 8 ½) di quel mondo di cui non poteva fare a meno.

Cento anni di Fellini, si, festeggiamo a oltranza. Ma è solo l’inizio. Perché come recita il titolo del bel documentario di Eugenio Cappuccio dedicato al regista riminese, Fellini Fine Mai, non si può pensare che il suo cinema possa trovare un oblio. Esso non può tramontare.
E, allora, Fellini per sempre.

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