A Hidden Life (La vita nascosta) di Terrence Malick colpisce nel segno, attraverso una poetica anti-militarista e umanista che rimanda, almeno in parte, a La sottile linea rossa.
Grandi maestri e apprendisti di talento
Il vecchio e il nuovo. Non è servito chissà quale sforzo di fantasia, per individuare un filo conduttore nella giornata inaugurale di questo 31° Trieste Film Festival.
Appena due le proiezioni previste in giornata al Politeama Rossetti. Intorno alle 18 è stato presentato, alla presenza del regista, del produttore e dell’attrice Anita Kravos, Storie dai boschi di castagne (Zgodbe iz kostanjevih gozdov ) dell’esordiente sloveno Gregor Božič: un cineasta decisamente giovane, faccia d’angelo a rimarcare il dato anagrafico, del quale sentiremo parlare ancora, non soltanto perché questo suo magnetico lungometraggio è diventato un piccolo caso, in giro per festival, ma anche per quell’insolito carisma rapportato a un fare cinema magicamente fuori dal tempo.
Anzi, proprio il peso dato a riprese di ambienti incantati, volti rugosi, desueti stili di vita e storie sofferte perse tra mucchi di ricordi ha fatto in qualche modo da trait d’union, quando si è passati da questo sorprendente lungometraggio d’esordio alla gradita conferma di un Maestro, che, al contrario, negli ultimi tempi era sembrato girare a vuoto.
Un ritorno di fiamma, per Malick
Ebbene sì, ammettiamolo pure. Con candore. Senza timori riverenziali. Se già in un film osannato da molti come The Tree of Life (2011) avevamo intravisto una pericolosa linea di tendenza, le successive opere dell’autore (soprattutto To the Wonder e Knight of Cups) avevano amplificato a dismisura tali sensazioni, restituendoci l’immagine di un cineasta autisticamente ripiegato su un’introspezione forzata, su una mortificazione di qualsiasi approccio narrativo tradizionale imposta con totale autoreferenzialità, come una coazione a ripetere… e a ripetersi.
In A Hidden Life (La vita nascosta) è invece arrivata, sospiro di sollievo, la sintesi: una sintesi pregevolissima, una sintesi a lungo agognata, nel senso che il così peculiare modo di filmare (e di montare, con voci extradiegetiche a riprodurre un moto di coscienza interiore) dell’assai riservato Maestro statunitense si è ulteriormente evoluto ed è tornato ad essere funzionale, ad accompagnare una nobile ricerca sui più profondi interrogativi etici e su quelle scelte difficili, generalmente compiute in situazioni di estremo pericolo.
Un po’ come nel suo vero capolavoro, La sottile linea rossa (1998), è nuovamente la repulsione nei confronti della guerra e dei suoi orrori a conferire spessore a un racconto, che si compiace (con uno stile pienamente giustificato, stavolta, dalla cornice storica ed emotiva) di un andamento trasognato, di flebili stati d’animo, di infinite attese.
Torna anche quel grido soffocato contro la guerra
«Posso sopportare qualunque cosa mi infligge, sono due volte l’uomo che è lei», Affermava spavaldamente il soldato Witt (James Caviezel), in un dialogo straordinariamente intenso con il sergente maggiore Welsh (Sean Penn).Ed era uno scontro tra titani, quello de La sottile linea rossa, perché entrambe le figure or ora ricordate all’esperienza bellica, seppur da punti di vista differenti, si rapportavano attraverso una logica comprensibile, umana.
Diverso è il caso di quegli obiettori di coscienza, i quali, di fronte ad un’umanità negata e a una condotta bellica ormai completamente priva di scrupoli come quella dei Terzo Reich, si appellarono al loro credo religioso e/o a princìpi di natura etica per boicottare la guerra, finendo così stritolati dagli ingranaggi della repressione nazista. A Hidden Life (la vita nascosta) è per l’appunto un film biografico sull’obiettore di coscienza austriaco Franz Jägerstätter (August Diehl), giustiziato dai nazisti nel 1943 e poi beatificato nel 2007.
La sua silenziosa rivolta non ha uno Sean Penn desideroso comunque di comprendere, in controcampo, bensì irremovibili esecutori in divisa del programma hitleriano. Ad eccezione, forse, dello stanco alto ufficiale della corte marziale, un Ponzio Pilato che lascia intravvedere spiragli di umanità, interpretato con la consueta profondità dal compianto Bruno Ganz. E di un Ponzio Pilato vi era senz’altro bisogno, visto che il fluviale lungometraggio assume strada facendo un evidente afflato cristologico…
Tre ore sarebbero risultate probabilmente eccessive, di fronte al Malick solipsistico degli ultimi anni, ma tra inquadrature grandangolari, impulsi claustrofobici e il delicato ma vibrante ricordo dei luminosi spazi alpini predominanti nella prima parte del film, ovvero l’armonico macrocosmo cui Franz ha rinunciato per rimanere fedele ai suoi ideali, la lezione morale di Terrence Malick affascina e convince anche sul piano visivo.