Gus Van Sant c’è, ma non si vede: è questo ciò che ci si dice dopo aver visionato “Milk”, film pluricandidato agli Academy Awards. Chi scrive non ha potuto neanche valutare a fondo la prestazione di Sean Penn, protagonista del film, poiché il doppiaggio, funesta consuetudine del circuito distributivo italiano, non permette di esprimere un giudizio aderente alla realtà.
Gus Van Sant c’è, ma non si vede: è questo ciò che ci si dice dopo aver visionato Milk, film pluricandidato agli Academy Awards. Chi scrive non ha potuto neanche valutare a fondo la prestazione di Sean Penn, protagonista del film, poiché il doppiaggio, funesta consuetudine del circuito distributivo italiano, non permette di esprimere un giudizio aderente alla realtà.
Il regista di Paranoid Park, Last days e Elephant, ha ritenuto opportuno ritrarsi per mettersi completamente al servizio della storia di Milk, fervente attivista omosessuale di San Francisco che, alla fine degli anni ’70, dopo vari tentativi falliti, viene eletto alla carica di consigliere distrettuale. Masaniello delle minoranze, Milk, grazie all’intensa lotta condotta durante più di un decennio, riesce a far uscire allo scoperto quel dieci per cento della popolazione americana che, vittima di un’insulsa crociata catto-perbenista, esitava a vivere pubblicamente le proprie preferenze sessuali. L’associazione indebita dell’omosessualità alla pedofilia o la presunta inadeguatezza di gay e lesbiche all’esercizio dell’insegnamento costituiscono solo alcune delle improprie propagande messe in atto dalla fazione fascista-borghese per mantenere “gaiamente” (è proprio il caso di dire) la minoranza nei suoi ghetti. Ciò che definisce la minoranza è il non-voler divenire maggiore, ovvero non ambire ad alcuna forma di potere e ciò attraverso un movimento sradicante la verticalità dei rapporti a favore di un’orizzontalità che fa della mancanza la propria essenza. E questo continuo movimento, che costringe alla continua messa in discussione di sé stessi, fa paura.
«La paura mangia l’anima», diceva Rainer Werner Fassbinder, e Milk vittima della paura, non sua ma degli altri, ne muore. Sul piano estetico l’insieme appare sufficientemente articolato, anche se la totale assenza di originalità della struttura fa rimpiangere quei prodigiosi silenzi o quegli infiniti piani-sequenza con cui Gus Van Sant aveva sovvertito, dilatandole fino a farle scomparire, le coordinate spazio-temporali, mostrando quell’altrove cinematografico dove l’evento, sospeso a tempo indeterminato, non poteva più accadere. Era il cinema del “margine”. Speriamo torni presto.
Luca Biscontini
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