È difficile essere un dio è un film del 2013 diretto da Aleksej Jur’evič German. Tratto dal romanzo di fantascienza È difficile essere un dio scritto nel 1964 da Arkadij e Boris Strugackij, il film è stato presentato fuori concorso all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Con Leonid Yarmolnik, Dmitri Vladimirov, Laura Pitskhelauri, Aleksandr Ilyin, Yuri Tsurilo.
Sinossi
In un futuro distopico, Don Rumata arriva su Arkanar, inviato dai potenti della Terra per testimoniare da vicino cosa stia accadendo in quel pianeta sconvolto da un nuovo Medio Evo, dominato dalla dittatura di Don Reba. Impossibilitato a interferire con le vicende politiche e cambiarne il corso della storia, tutto ciò che può fare è cercare di proteggere tutti quegli individui che con le loro conoscenze potranno essere d’aiuto al futuro del pianeta e, tra loro, rintracciare Budakh e salvarlo da un destino altrimenti segnato.
Il ciclo eterno dell’uomo e della vita
All’improvviso, due uccelli ‘tagliano’ l’immagine, emergendo dallo schermo e attraversando la sala Petrassi durante la proiezione stampa. Un attimo, che ha abbracciato tutti i presenti in un felice smarrimento. Un attimo. Quel momento, per Svetlana Karmalita (compagna artistica e di vita di Aleksej Jerman), è stata la testimonianza indubitabile della presenza là, dentro l’ultima (postuma) pellicola nella quale si è consumata tutta la porzione finale della sua esistenza, di Aleksej Jurevič Jerman (20 luglio 1938 – 21 febbraio 2013). Una vita posseduta dall’arte, posseduta dal cinema. È difficile essere un dio è realmente una pellicola che ha regalato l’eternità agli spettatori. Un film per tutti i secoli. Universale, perché capace di valere per ogni tipo di umanità e di essere umano che è stato, che è, che sarà. Un documento sull’uomo, come tutto il suo cinema può essere definito. Un cinema senza compromessi, portato avanti contro tutto e tutti, in primis contro la censura sovietica. La sua filosofia cinematografica, la sua scrittura registica hanno creato una nuova plastica filmica umana, un modo nuovo di mostrare il mondo, ribaltando strutture stilistiche ed etiche. Il suo sguardo sulle differenze, la predilezione per il dissenso, la carica rivoluzionaria nell’innovare i codici di decifrazione del reale, gli hanno permesso solo di realizzare 6 film (5 e mezzo, visto che il suo debutto è una coregia) in 46 anni di carriera. É difficile essere un dio nasce non intenzionale. German pensava di chiudere il proprio cerchio creativo con un’autobiografia infantile (così Svetlana Karmalita in conferenza stampa). Ma quando le truppe russe fecero il loro ingresso in Cecoslovacchia, e la minaccia per il futuro, la minaccia per l’arte assumevano una concretezza disperata, German decise di ‘adattare’ l’omonimo romanzo di fantascienza dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij del 1964. Un lavoro che lo ha impegnato-consumato per ben 15 anni. Iniziato nel 1999, terminato nelle riprese nel 2006 e successivamente sottoposto ad un lungo lavoro di montaggio e di sincronizzazione del suono. German non ha potuto vederlo chiuso, strappato alla vita il 21 febbraio del 2013.
Realizzato dal cineasta insieme ai suoi collaboratori più fedeli, coinvolti a tal punto nel processo creativo (produttori inclusi), da considerare questo film come se realmente rappresentasse per ciascuno il rispettivo ultimo lavoro della propria carriera. Un altro pianeta, Arkanar, dove l’essere umano che lo popola è in uno stadio economico-sociale ancora fermo a quello medioevale, in cui il Rinascimento è ‘bandito in seno’, combattuto. L’arte, la bellezza, contrastate come la peste. L’uomo preservato nel lordoso, putrido stato brado, tra fango, escrementi, promiscuità, dentro un eterno autunno piovoso, appiccicoso. Tutto il cupo fisico e ambientale, tutto il degrado di bestialità nel quale ci si crogiola di stare come nell’unica e sola condizione che all’essere umano spetti. Defecazioni ed orine a cielo aperto, sputi, sporcizia. La morte esposta-perpetrata con ferocia naturalezza (per ciò che è), manifesta nelle viscere squartate, nelle interiora manipolate con piacere di rivelazione. Scrittori ed intellettuali messi al bando, eliminati. Alcuni scienziati terrestri sono lì per aiutare la popolazione a progredire, ma non senza difficoltà. Non possono usare violenza, ed è assolutamente fatto divieto di uccidere. Anton (uno di questi), Don Rumata per gli abitanti del villaggio (lo straordinario e pietra miliare attoriale russa Leonid Yarmolnik, che per tre ore è il centro a cui arrivano e da cui si dipartono tutti gli avvenimenti vorticosi che lo avvolgono) nel tentativo di salvare gli intellettuali dal massacro, non può non ‘sporcarsi le mani’, restando sempre più coinvolto nel putrido, lordo, inaffettivo, degradato, mondo umano che lo contiene. Tutto questo universo ci galleggia davanti agli occhi dentro una plasticità visiva bianca e nera, dirompente e rappresentativa. Bassorilievi umani e materiali che invadono lo spazio nel quale la macchina da presa, a fatica, prende il proprio posto. Continuamente si fa spazio ‘lottando’ contro una continuità-vitalità umana incessante. Chi ci sosta, la attraversa, la guarda (ci guarda) con fare ammiccante, canzonatorio che pare dirci: “Questo che vedi sei tu. Ora sei ripulito, psicologicamente rimosso, ma questa cosa che puzza, vomita, rutta, scorreggia, defeca, genera muco, che si rotola nel fango, quelle budella che cadono a terra, quelle interiora lunghe come serpenti, quell’ammasso di organi sei tu”. Hieronymus Bosch e Brueghel Il Vecchio le coincidenze pittoriche lampanti e inconsapevoli (Svetlana Karmalita ha negato che l’impostazione visiva degli esterni e dei claustrofobici sovrabbondanti interni sia stata direttamente mossa da simile intento riproduttivo pittorico).
Coincidenza dell’arte che richiama a sé altra arte, le inevitabili similitudini di occhio che immediatamente riproducono tale doppio, pittorico e umano. La visione di È difficile essere un dio richiede sforzi di attenzione ‘estremi’ per chi è abituato ad un cinema medio. Srotola-procede al più sollecitando-estremizzando dettagli fisici, di materia, di oggetti, senza filtri nel disgusto-orrore tracciato con un rigore di verità assoluto. Ci si perde, confonde nel legare i vari frammenti sbattuti davanti, nel tenere sotto controllo la labile traccia narrativa segnata, storditi soprattutto da un moto visivo perpetuo, caleidoscopio, che riproduce l’essenza dell’umanità che siamo. Ogni generazione è consapevole che è fatica sprecata cercare di lottare per creare una umanità migliore, ma allo stesso tempo non può esimersi da farlo. Questo il leitmotiv che pare sussurrarci Aleksej German. Il senso ultimo del suo lascito finale riposa con lui: “Quando al potere ci sono i grigi, prima o poi arrivano i neri”. Non verrà mai estinta la ferocia, la forza. Pur quando ad avere la meglio saranno i deboli in rivolta, emergerà tra loro sempre un forte a prevaricarli in un ciclo senza fine. Primo premio alla carriera postumo in Europa (consegnato alla compagna di German e a suo figlio Aleksej A. German), voluto da Marco Müller nell’omaggio a un vero creatore artistico, la cui cinematografia contrastata nella realizzazione e nella diffusione, è una luce sull’uomo che all’uomo stesso non conviene spegnere né dimenticare.
Recensione di Maria Cera