La Guerra È Finita è la nuova serie al via su Raiuno, in cui il brillante Michele Riondino interpreta la parte di Davide, ebreo diventato partigiano dopo la deportazione della moglie e del figlio. Una storia di rinascita e ricostruzione, più che di morte. Lo abbiamo incontrato per approfondire il suo ruolo, ma anche l’attualità della tematica affrontata
La Guerra È Finita racconta con occhi “freschi” ciò che si è verificato dopo la Liberazione. Si parla innanzitutto di umanità, coraggio e rinascita. Alla luce della contemporaneità, del conflitto sociale e delle polemiche che ha già sollevato la serie, qual è l’aspetto che rende attuale questo racconto?
Oggi si dovrebbe continuare a parlare di Shoah, Olocausto e Resistenza. Si dovrebbe continuare a parlare di Antifascismo, proprio oggi, perché ci vogliono far credere che le idee fasciste possano essere considerate delle opinioni, quando in realtà essere fascista e mettere in atto l’apologia del Fascismo è criminale: lo dice la nostra Costituzione. A maggior ragione oggi, che nel linguaggio social diventa drammaticamente troppo facile imbattersi in considerazioni violente. È bene, quindi, raccontare tutto ciò.
Quali sono state, invece, le difficoltà che hai personalmente riscontrato nell’interpretare la parte di Davide, questo ingegnere ebreo, che desidera fortemente ritrovare i propri familiari?
La difficoltà è stata quella di lavorare a contatto coi bambini. È molto difficile. Abbiamo lavorato con 20-25 bambini, di tutte le età, e quindi il problema diventa esponenzialmente più complesso. Qui c’era, tra l’altro, anche la difficoltà nel trattare certe tematiche: quelle dei campi di concentramento. Questi bambini dovevano raccontare storie di una violenza unica. E, quindi, di fronte a persone che non sono ancora consapevoli di quanto un uomo possa trasformarsi in un mostro è difficile mantenere una certa lucidità. Quando avevamo alcune scene in cui dovevamo parlare di camere a gas ed esecuzioni non era assolutamente facile capire se era il caso di contenersi o di non mettere, invece, alcun filtro: insomma, ci preoccupavamo del fatto che dei bambini dovessero entrare in contatto con la storia atroce della Shoah attraverso i racconti di un film.
Quindi, anche voi adulti avete preparato i più piccoli, a livello recitativo, sul set. Li avete supportati.
Sì, abbiamo lavorato insieme. Noi adulti, ci siamo messi nella condizione di mettere a proprio agio i ragazzi più giovani, i bambini e divertirci insieme. Abbiamo dovuto mettere un po’ da parte l’idea personale che abbiamo del nostro mestiere, l’arte, per tirare fuori tutta la professione possibile.
Quanto son durate le riprese?
Quattro mesi.
Tu, invece, come ti sei preparato per un ruolo emotivamente così forte, in alcuni casi anche vendicativo?
Ho approfondito un aspetto della storia che non conoscevo così bene: le Brigate ebraiche che hanno deciso di combattere il Nazifascismo con le armi in pugno. Quindi, mi sono informato un po’ sulle azioni e su chi erano questi combattenti, Ho scoperto che la Brigata ebraica non è stata tutta ferma nel subire le atrocità, molti hanno combattuto al fianco dei Partigiani per la Liberazione dell’Italia, che era chiaramente anche la loro Italia. Questo aspetto mi ha aiutato molto nel ritrovare le caratteristiche del personaggio: un professionista, un ingegnere italiano che reagisce alla sottrazione e deportazione della propria famiglia. Ovvero, armi in pugno e coraggio.
Hai dichiarato di preferire attualmente ruoli più adulti, che calzano meglio col ruolo dell’uomo e del padre che sei divenuto. C’è un personaggio che preferiresti interpretare fortemente in questo momento della tua vita?
A me interessa fare cose belle. Che possano rendermi libero nella ricerca e nella costruzione del personaggio, al di là di quale sia. Mi interessa più il percorso. Se il progetto mi dà la possibilità di potermi muovere liberamente, senza troppe costrizioni, allora ogni ruolo diventa ideale per me.
Qual è, invece, il tuo rapporto attuale con la televisione e com’è cambiato dai tempi di Compagni di Scuola ad oggi?
È cambiato moltissimo. La televisione ha un meccanismo differente dal cinema. Infatti, bisogna essere dei grandi conoscitori di se stessi per poter fare la televisione e vestire ruoli, personaggi che possono diventare emblematici e continuare a rimanere ancorati ai propri ideali, ossia alla passione per questo lavoro. Ho avuto la fortuna di intraprendere un percorso co Il giovane Montalbano. Mi ha decisamente dato tante soddisfazioni, anche una certa riconoscibilità. Allo stesso tempo, non riesco a non pensare a una mia vita professionale lontana dalle scene del teatro, per esempio.
Attualmente, sei impegnato col teatro?
No. Ho appena terminato con Il Maestro e Margherita.