The App di Elisa Fuksas fa della contaminazione dei generi e della molteplicità dei livelli narrativi la forma per raccontare l'amore e il desiderio nella società contemporanea.
Disponibile su Netflix a partire dal 26 Dicembre!
The App è tra le altre cose un film sull’amore e come tale parte dall’utopia che l’unione tra due persone possa durare per sempre. Pur dimostrando spesso il contrario, il cinema parte spesso da questa ipotesi: tu fai lo stesso attraverso il dialogo che chiude la prima sequenza.
Si, parlando di utopia il problema è che con qualunque essere, creatura o dimensione – perché quella di Maria, uno dei personaggi del film, è una dimensione più che un essere – lo stesso desiderio diventa utopia, nel senso che sia con la fidanzata di Niccolò che con la voce di donna presente nella App, sia con il Dio amato dalla governante, tutto quello che è l’oggetto del nostro amore – e dunque l’oggetto del nostro desiderio – in fondo è destinato in qualche modo a corrompersi. Questo vale per la donna che Niccolò incontra nella App, ma anche per le relazioni stabilite dagli altri personaggi.
L’eternità del sentimento amoroso, qui come altrove, appare come una forma di resistenza nei confronti dell’intercambiabilità delle relazioni umane che caratterizza la cosiddetta società fluida.
Perché siamo umani. Finché abbiamo un corpo è difficile fare a meno dell’amore che comunque rimane qualcosa di impalpabile e di invisibile. Difficile da spiegare sia che si tratti di un concetto, di un essere umano, di una persona. È molto più facile dire perché qualcosa o qualcuno non ci piace. Nel gioco tra il bene e il male è molto più semplice essere cattivi che buoni e questo poi lo declini a tutti i livelli dell’esistenza. Però per me l’amore è fondamentale e in questo senso è anche religione. Dopodiché, io non ho paura della tecnologia: l’intelligenza artificiale presente nel software utilizzato da Niccolò in realtà non è una cosa a se stante ma diventa una sua proiezione. Parliamo di una tecnologia quasi profetica e che nella dialettica innescata con le altre componenti dell’esistenza umana dà modo al film di esistere.
The App ha più possibilità di lettura. Una di queste potrebbe essere quella di fare della storia una metafora delle paure di Niccolò di diventare padre e dunque di assumersi le responsabilità legate al rapporto con Eva, la sua ragazza.
Si, perché poi se ci pensi le storie e gli esseri umani cambiano sempre per il fatto di compiersi nella mutevolezza delle cose che abbiamo intorno, come il telefono, il computer, le case, i libri e gli I-Book. Alla fine i nostri problemi sono uguali ai nostri sentimenti: viviamo, soffriamo, ci innamoriamo, perdiamo le cose, le troviamo, siamo felici, in un susseguirsi continuo di stati e sensazioni. È dunque inevitabile che certi sentimenti si ripresentino e resistano al divenire dell’esistenza.
Il fatto che nel film il protagonista sia un attore chiamato a interpretare la parte di Gesù proprio nel momento in cui rimane vittima della App innesca un sottotesto in cui a dialogare sono vecchia e nuova fede, religione e tecnologia.
Hai centrato quello che volevo dire perché è proprio ciò che penso e sento. Tutto questo però senza che ci sia da parte mia un giudizio negativo nella considerazione che alla fine l’uomo in qualche modo si adatta, compensa, si amplia, si modifica e trova sempre il suo modo di stare al meglio. Perché poi la vita di duecento anni fa non era migliore di quella di oggi. Sfido chiunque a tornare davvero indietro nel tempo, restando senza acqua né luce e con grandi sentimenti che chi lo sa se erano davvero tali.
Questo atteggiamento da parte tua emerge in maniera evidente perché nel confronto dialettico tra religione e scienza non c’è mai un punto di vista moralistico o denigratorio nei confronti di una e dell’altra. Per contro il film ragiona sulla capacità di entrambe di rispondere ai desideri dell’uomo.
Be, si, questa in fondo è la grande scommessa della macchina, se cioè quest’ultima riuscirà a stare davvero al passo dell’uomo. Abbiamo sempre paura che queste siano più intelligenti di noi, mentre dietro a tutto c’è forse il complesso della macchina di essere meno umana di noi: in fondo è la solita lotta tra ragione e sentimento raccontata dal film con slanci più o meno lirici. La passione che scorre nella parole dei personaggi è quasi poetica, come succede con il monologo di Maria, capace di portarti da un’altra parte, essendo lei un personaggio senza una presenza fisica e sintesi di tutto ciò che Niccolò ha amato, voluto, cercato, visto e anche dimenticato. Le sue parole lo fanno emozionare al punto che a un certo punto cambia, diventando diverso da quello di prima. Lui si commuove, si apre e riesce a stare al mondo, mentre all’inizio della storia appare abbastanza distaccato, quasi ipnotizzato, fragile e debole, senza idee del paesaggio che attraversa. Uno scarto che insieme a Vincenzo (Crea, l’attore protagonista, ndr) abbiamo cercato di rendere visibile anche attraverso il cambio di recitazione.
In termini narrativi, il rapporto tra essere e desiderio è dato anche dalle varie vicissitudini che coinvolgono il protagonista. Le ragioni economiche che impediscono di portare a termine il film e il suo rifiuto di diventare parte attiva nella conduzione della società di famiglia rappresentano i problemi materiali che si oppongono alla realizzazione del desiderio.
Si, che poi il problema del film è lo stesso di quello che sta alla base della tragedia greca e cioè di raccontare come le persone che hanno tutto riescono a perderlo, cercando di coinvolgere anche coloro che non posseggono nulla. Nel caso di The Appbisognava rispondere alla domanda su come una persona normale potesse sentirsi vicina a un principe, perché Niccolò in fondo lo è in una maniera contemporanea. C’era infatti il rischio che il protagonista fosse capriccioso, insopportabile e viziato, perché in fondo è uno che ha tutto e che a un certo punto in qualche modo vi rinuncia, pur con la contraddizione di non farlo fino in fondo; come gli ricorda l’avvocato di famiglia rammentandogli i privilegi della sua agiatezza, il fatto di vivere in una casa molto bella e di frequentare i migliori corsi di recitazione, cose che in pochi possono permettersi. In tutto questo c’è la passione, che è la sua diversità e il fatto di volersi staccare dalle proprie origini. Paradossalmente, Niccolò lo fa nel momento in cui interpretata Gesù Cristo che è il principe degli ultimi. Anche questo aspetto suscita il coinvolgimento da parte di chi guarda, perché in fondo quando siamo nudi di fronte al vero problema dell’esistere, e quindi a come affrontare la vita ed eventualmente anche la morte – perché poi quella è la grande paura di tutti -, siamo tutti uguali. Lo dico senza alcuna retorica. Le grandi questioni sono di tutti e The App era anche il tentativo di riuscire a parlare a più persone possibili.
Il tuo cinema è ricco di riferimenti biografici. In questo caso potrebbe esserlo il tentativo di Niccolò di emanciparsi da una figura paterna che immaginiamo ingombrante per la realizzazione delle proprie aspirazioni?
In realtà il film è più incentrato su come il mondo vede lui. Quello io sento simile perché poi rispetto alla mia provenienza non ho alcun problema e, anzi, ne sono felice. Grazie alla “lotteria” dell’universo ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia in cui ci sono tante cose positive, ma anche molta fatica.
Lo dicevo in riferimento al tentativo di emanciparsi per costruirsi un proprio percorso personale.
Più che altro costruirsi una propria identità perché, sai, non è facile farlo in un paese come il nostro in cui si usa violenza verso tutti coloro che riescono a fare qualcosa. Guarda solo quello che hanno scritto a proposito del Pinocchio di Garrone; parlo del modo. Si può non amare un film ma i modi esasperati con cui questo viene espresso mi sconfigge, facendomi soffrire. Parlare di come il mondo vede lui equivale a parlare un po’ di noi: trovare la propria identità vuol dire definire il proprio spazio nel mondo e far sì che esso sia pulito e non infettato dell’odio che vi aleggia, a prescindere da tutto. Purtroppo l’amore non si eredita. I nemici si, gli amici no (ride, ndr).
Anche The App è filmato in modo che ogni immagine possa aggiungere significati alla narrativa della storia. Così, a partire dalla prima sequenza – quella in cui Niccolò ed Eva fanno l’amore -, l’astrattezza della composizione e delle scenografie vanno in direzione di una sospensione spazio temporale che il film si porta dietro fino alla fine.
Beh, si, è vero perché poi è il mio modo di vedere il mondo, caratterizzato dalla priorità della costruzione visiva rispetto alla storia, nei miei film destinata ad adattarsi alle immagini. Nei fatti per me non c’è lavoro più solitario del mio perché nemmeno io so dove sto andando. Insieme alle persone presenti sul set puntiamo a un limite, pur non sapendo dove andremo a finire e come sarà il disegno finale. In tale contesto l’unica cosa di cui ero consapevole era di volere uno spazio tutto romano, perché è il luogo da cui vengo, che conosco e che mi nutre. Questo, però, senza escludere il resto del mondo. Non vedo perché siamo in grado di famigliarizzare con New York, Los Angeles, con i posti in cui il cinema ha costruito il nostro immaginario, e non possiamo farlo a partire da quello che è nostro e dunque dall’Italia: da qui la scelta di Roma e della religione. Per me era importante sospendere tutto, mettere i personaggi in una situazione astratta per corrispondere alle caratteristiche di una storia che tende a separarsi dal reale. Niccolò parte da un universo inizialmente più naturale e naturalistico – e parlo della scena di sesso e del calore della sequenza d’apertura – per poi perdere sempre più i contatti dalla realtà.
La distanza dei corpi di Niccolò ed Eva, prima vicini e poi sempre più lontani, rende la misura del mutamento del rapporto tra di loro ma anche dell’evoluzione del film.
Sono d’accordo sul valore dei corpi e sulla loro funzione. Senza contare che nel film c’è molto sesso, il che è paradossale in una storia che tende all’astrazione. Però a me piaceva che fosse il corpo a rimanere: sia come risultato di un’allucinazione, sia come frutto di un desiderio come quello del protagonista, pronto a immaginarsi sulla spiaggia insieme alla donna costruita dal suo immaginario e, infine, nell’intimità della vita di coppia assaporata da Niccolò ed Eva nei vari momenti della storia. Alla fine è la carne a governare in qualche modo le azioni dei personaggi.
Alla rarefazione della realtà fai corrispondere un profondo senso della corporeità che per esempio emerge nelle punizioni fisiche che Ofelia si infligge per espiare le sue colpe.
Si, perché poi Cristo è fatto di carne ed è anche un uomo, come una parte di Chiesa è portata a pensare. Senza arrivare alle punizioni e al cilicio che sono pratiche abbastanza rare, il credente si reca a messa pensando di mangiare il corpo e il sangue di Cristo: tutto passa attraverso il corpo anche se poi quello della funzione liturgica è del tutto metaforico perché si tratta di un’ostia.
Nella liturgia “mangiare il corpo di Cristo” ha tutt’ora una forte valenza simbolica.
Si, è quasi una forma di cannibalismo attraverso la quale ci si riconnette a questa cosa che non abbiamo mai visto ma a cui siamo fedeli al punto di arrivare a credere di mangiare il corpo del Salvatore. In qualche modo siamo di fronte a una “capriola” mortale.
Se l’aspetto carnale dei personaggi è spesso mostrato, d’altro canto tutto il film è costruito su più livelli, uno dei quali è quello che fa capo alle caratteristiche dell’ambiente. Tu privilegi le sequenze notturne, giri quasi sempre in interni e con luci artificiali. E, non ultimo, collochi l’azione in alberghi, piscine, escape room, rimandando a una narrazione interiore che si rifà a una serie di luoghi dell’anima.
In realtà si tratta di diverse stazioni, poiché la mia idea era quella di realizzare un’immersione che parte da un mondo naturale e arriva in un altro simile allo specchio di Narciso. Nel film, alla pari del mito, sembra di andare al fondo del lago dove Niccolò si specchia fin dall’inizio. Ci si immerge in questa cosa complicata che è la vita, fatta di sentimenti e di paure. Penso che The App sia una storia sentimentale; non lo vedo come un film di fantascienza, né come una puntata di Black Mirror. Comunque è vero che c’è molta notte.
The App è un film basato sulla contaminazione dei generi e, in questo senso, non si faticherebbe a definirlo come un thriller dell’anima.
All’inizio volevo che Niccolò fosse ulteriormente disorientato perché è uno che viene da un altro paese, con il fuso orario indietro di nove ore. Per questo si sveglia, mangia, si allena di notte. È tutto un po’ fuori fase, perché lui è molto legato alla vita americana, lontano dalla sua famiglia. Poi, via via si adatta a questo nuovo ritmo e comunque rimane notturno, perché poi questo gli dà il senso dell’estate, dell’ossessione, forse del pericolo.
Il montaggio tende a eliminare i raccordi visuali privilegiando stacchi molto netti tra una scena e l’altra. In questo modo costruisci delle vere e proprie isole esistenziali in cui la continuità narrativa è data dalla coerenza emotiva e non da meccanismi di causa ed effetto.
Si, a volte è abbastanza brutale, perché parti dalla notte per arrivare a un altro spazio che non sai bene cos’è. In fondo, però, la realtà è un’immersione veloce in cui in un momento prendi ossigeno, ma poi ritorni in questa cosa che ti trascina da un’altra parte. Penso alla scena dell’escape room e poi a quella relativa al compleanno del ragazzino, in cui ci si ritrova in quell’ambiente bianco che sembra un sogno e ancora, uscendo da lì, si ripiomba in una cosa del tutto diversa, che poi diventa il serpente e ancora altro.
Si tratta di un montaggio efficace nella mescolanza dei vari livelli narrativi. In molti passaggi ciò che vediamo potrebbe essere reale e allo stesso tempo immaginato. Oppure rappresentare il flusso virtuale in cui è immerso il protagonista, come capita di pensare nella scena della piscina in cui l’inquadratura dall’alto fa sembrare Niccolò fluttuare in una sorta di limbo visualizzato dall’azzurro dell’acqua.
Poi, sai, la piscina per me è sempre lo schermo del pc: c’è tanta acqua perché è come se fosse la superficie del cellulare, ovvero qualcosa di misterioso, come molti degli oggetti da cui siamo circondati; come lo smartphone che è un oggetto strano e bellissimo, presente in modo trasversale in tutte le case, dal centro di New York alla periferia di Pechino. È una specie di miracolo perché non c’è altro oggetto così usato e trasversale.
I nomi dei personaggi mi pare riconducano alla loro condizione all’interno della storia. Così Ofelia è colei che subisce gli eventi, Eva invece è la donna tentatrice, quella che spinge Niccolò a frequentare il sito di incontri e che successivamente porta dentro di sé il frutto della loro relazione, mentre Maria non può che essere il modello femminile al quale Niccolò/Gesù aspira e verso cui tende.
Hai detto tutto tu e infatti è così (ride, ndr). A proposito del personaggio di Ofelia, quello che lei fa ho potuto verificarlo frequentando le medesime processioni notturne, quindi The Appè anche il racconto di una Roma che nessuno conosce ma che esiste, un po’ misteriosa, di nuovo notturna, semi pagana, anche se poi intrisa di un cristianesimo delle origini. Però, ecco, la religione è molto importante nel film, sempre per quel tipo di rapporto di cui parlavamo prima, costituito, appunto, dal confronto tra scienza e fede a partire dal quale vediamo alcune caratteristiche dell’una transitare nell’altra.
La prima volta che Niccolò assume le sembianze del Cristo avviene di fronte a tre specchi, un numero ricorrente a partire dal rapporto tra Niccolò ed Eva, ogni volta destabilizzato dalla compresenza di una terza persona, per non dire del rimando alla trinità cristologica.
Il rimando è alla sfiducia nei confronti dei rapporti di coppia, senza che questo voglia dire avere delle famiglie diverse da quella istituzionale, ma solo per evidenziare che forse serve necessariamente un terzo vertice. In merito alla divina trinità è qualcosa che appartiene in maniera naturale alla nostra coscienza collettiva, non si può spiegare.
Nei tuoi film ti rifai sempre a personaggi fantasmatici e anche qui ognuno dei protagonisti si trova a compiere un viaggio personale in cui affronta le proprie paure.
Sarà che mia nonna diceva che bisogna avere paura più dei vivi che dei morti, alla fine hai finito per vedere i film come fantasmi per avere meno paura di loro (ride, ndr). In realtà, a parte questo, c’è come una forma di levità nei personaggi che li rende in qualche maniera leggeri, senza peso nelle cose, come se non lasciassero troppa impronta, attraversandole senza camminare, senza fare rumore né scalpore. Fantasmatici è un termine che mi piace tantissimo, perché io cerco sempre un po’ di grazia nelle persone e nelle cose e vorrei che questi personaggi ne avessero un po’.
Spesso riprendi i protagonisti collocandoli al centro di una composizione dominata da un equilibrio classico tra spazio e figure.Una caratteristica diventata stilema del tuo cinema.
È un ordine che mi viene naturale; dato che la realtà non lo è, cerco di crearlo io quando la racconto, ed è come se il cervello automaticamente la riorganizzasse secondo canoni che sono più aggraziati. Tento sempre di farmi piacere tutto quello che faccio, cercando di minimizzare quell’errore estetico che per me non riguarda solo il brutto ma anche la domanda su cosa voglia raccontare una determinata immagine. Ogni volta manca sempre qualcosa: si può trattare delle parole, di una scena che poteva essere girata meglio, di un attore non al massimo della forma. La soluzione è cercare di fare una sintesi con meno errori possibili. Diciamo che mi affido molto all’atmosfera che riesco a costruire e attraverso essa tento di ammortizzare le altre imperfezioni.
The App potrebbe essere definito un film lacaniano, perché in esso si parla molto del desiderio, dei suoi limiti così come della sua crisi.
Si, tipo il desiderio del desiderio; in fondo è la nostra ossessione o quanto meno la mia, quella del chiedersi quando durerà l’amore e cosa rimarrà al suo termine. Cioè come si fa a rinnovare quel desiderio che ti aveva catturato così tanto fino a farti innamorare? È davvero un bel problema e questo riporta di nuovo in campo la religione perché il ricongiungimento messo in atto con la comunione riaccende quel desiderio, fa ritornare sempre allo stupore e alla meraviglia di quell’inizio, del primo incontro e del primo bacio. Sono diventata amica di un prete molto giovane e lui, quando mi parla del suo rapporto con la religione, mi fa sentire inadeguata rispetto al suo amore nei confronti di qualcosa che non vede.
Anche Nina, il tuo primo film, era caratterizzato da questa presenza assenza e dalla proiezione del desiderio della protagonista.
Certo anche se poi vai a capire se c’era qualcuno intorno a lei o se anche Nina era un piccolo fantasma.
Il fatto che a interpretare il regista del film che Niccolò deve girare sia Abel Ferrara può essere letta anche come la tua adesione a un cinema indipendente e coraggioso?
Si, perché poi io vorrei diventare molto forte nella vita per raccontare storie capaci di parlare al più alto numero di persone rimanendo sempre ciò che sono, quindi un’autrice. Da questo punto di vista, non sono d’accordo sul fatto che se sei popolare smetti di esserlo; penso sia un’idea più europea e soprattutto italiana. Pensa a Tarantino, a Eastwood e allo stesso regista di Parasite che nel suo paese ha incassato cifre incredibili, mentre da noi viene percepito come un autore impegnato solo perché ha vinto a Cannes.
Tra l’altro è riuscito a toccare profondità di significati con un film che procede in senso orizzontale. Un espediente che gli ha consentito di parlare soprattutto ai giovani, di conquistarli alla causa del suo lavoro.
Si, quella è la cosa che cerco, poi è complicato arrivarci e per fortuna ci sono nuovi interlocutori sul tipo di Netflix e Amazon, che sono in grado di dare più velocità, più storie e che sono secchi nel decretare se una cosa piace o no. Con essi ci sono meno mediazioni nell’espressione del giudizio filmico. Non ci sono altre ragioni, c’è la storia.
A proposito di Netflix, penso che per molti artisti questa piattaforma dia loro la possibilità di acquisire una visibilità in parte negata con le uscite tradizionali.
Assolutamente, anche perché poi paradossalmente in sala non lo andiamo a vedere, ma poi avendolo a disposizione nelle proprie case in qualche modo ci fidiamo un po’ di più nel riuscire a guardarlo. Ma la cosa potente di lavorare in questo nuovo modo è prima di tutto il processo sperimentale. Quando fai un film nella piattaforma ti trovi di fronte a qualcosa di cui si disconosce la portata. Per me è un prodotto nuovo.
In che maniera questo ha influito nella messa a punto del tuo dispositivo?
Ho pensato molto di più alla storia che di solito lascio sempre indietro. Anche se non è bello da dire, in me prevale l’amore per altre cose, e cioè del “come” raccontare. Qui, invece, sono stata molto più brutale e poco indulgente verso me stessa, pensando prima di tutto al pubblico. Quando ti trovi di fronte a una platea di 159 milioni di persone devi cercare di trovare un linguaggio che appartenga a tutti, in cui rientrano anche i movimenti, gli attori, le loro espressioni; non è facile rimanere europei ed essere globali. Pero io penso che l’unica via di salvezza è la globalità e in questo senso sono positiva.
Parliamo degli attori e quindi di Vincenzo Crea/Niccolò, Jessica Cressy/Eva, Greta Scarano. Anche se solo in parte, si tratta di volti nuovi. Qual è stata il motivo della loro scelta?
Vincenzo aveva solo vent’anni e quando fai un casting con un protagonista coìi giovane hai bisogno di un volto internazionale. Volevo che fosse credibile, che questo ragazzo fosse di buona famiglia e avesse passato la sua vita in giro nelle migliori scuole d’Europa e poi negli Stati Uniti, dove lo troviamo all’inizio del film. Tutto questo esclude tantissimi attori, perché comunque le nostre storie sono per lo più legate ad altri mondi, alla periferia, al degrado, all’emarginazione, a una serie di cose a cui la figura di Vincenzo Crea non appartiene. Quando ho visto il suo volto, prima ancora di fargli il provino, ho pensato che Niccolò fosse lui, perché Vincenzo rispondeva alla perfezione alla mia idea di ragazzo italiano ma globale. A Jessica ho fatto il provino senza ancora aver visto il film di PietroMarcello. Diciamo che a convincermi è stata la sua bellezza prima ancora di altro. Poi, sai, una persona vive sull’impatto visivo che ti fa venire voglia di guardarla oppure no. Questo non vuol dire che le altre attrici non fossero attraenti, ma la bellezza è una qualità anche etica, perciò non è solo una questione di gusto.
La sua è una bellezza che sembra provenire da un altro tempo e che potremmo trovare in un dipinto.
Si, assolutamente, rinascimentale, come una madonna dal volto rassicurante. Per quanto riguarda Greta, mi piaceva prendere una giovane donna che fosse attraente e per altri versi portatrice di una doppia vita. Molto castigata quando è nel suo lavoro, con i capelli raccolti e vestiti irreprensibili; radiosa e bella quando va in chiesa e fa la processione.
Lei riesce a essere credibile sia quando si tratta di ritrarre donne altolocate che appartenenti a un milieu degradato e periferico.
Durate il film riesce a trasformarsi, rendendo credibili entrambe le nature di Ofelia. Per me era importante raccontare una giovane donna innamorata di Cristo come se questo fosse una persona. La volevo diversa dall’immaginario con cui di solito si raffigurano questo tipo di persone che nel grande schermo sono quasi sempre anziane e strambe.
Hai detto già di Parasite: a parte quello, quali sono stati i film della stagione che ti sono piaciuti di più?
Penso che Parasite sia ancora quello che mi ha colpito di più perché era semplice, inaspettato, sorprendente e quando un film è così è difficile trovare qualcos’altro. Quando mi piace un film dimentico tutti gli altri, finché non ne arriva uno capace di sostituire l’ultimo. Per il momento Parasite resiste.
Anno: 2019
Durata: 78'
Distribuzione: Netflix
Genere: Drammatico
Nazionalita: Italia
Regia: Elisa Fuksas
Data di uscita: 26-December-2019
Vuoi mettere in gioco le tue competenze di marketing e data analysis? Il tuo momento è adesso!
Candidati per entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi Drivers