Con il suo ultimo film, Sorry we missed you, Ken Loach è ancora più spietato nei confronti della contemporaneità e sempre più empatico verso i suoi personaggi. Vittime di economie impazzite che stritolano persone, famiglie e classi sociali, mentre arrancano nella ricerca di una meritata normalità.
Piovono pietre sempre più pesanti sulle storie di Ken Loach
Già nel 2016, a proposito di Io Daniel Blake, avevamo detto che piovevano pietre più grosse a New Castle e si piangevano lacrime più amare. Senza i balli colorati di Jimmy’s Hall, la manifestazione di Bread and Roses, il finale catartico di Riff Raff, i momenti di leggerezza nella La parte degli angeli. Ora, tre anni dopo, in Sorry we missed you gli affetti familiari sono in serio pericolo a causa dell’incertezza lavorativa, intollerabile. Ricky (Kris Hitchen) e Abby (Debbie Honeywood) sognano di poter comprare una casa per loro e i due figli: l’undicenne Liza e l’adolescente Seb. Non stanno vagheggiando chissà quali ricchezze, bensì la sicurezza del lavoro e della casa, desideri che corrispondono ai diritti fondamentali di chiunque.
Ritmi di lavoro da Tempi moderni
Già la prima scena – il colloquio di Ricky con un datore di lavoro apparentemente ed esageratamente friendly – non promette nulla di buono. “Lavori con noi e non per noi, non ti assumiamo ma ti integriamo“, per poi aggiungere la lista delle responsabilità, che nei fatti si tradurranno in diritti negati. Nella pratica quotidiana, tutti i rischi e nessuna tutela. Né malattia, né problemi familiari, né incidenti sul lavoro potranno esentare Ricky dai suoi percorsi folli che attraversano il traffico di New Castle. Che iniziano il mattino presto e finiscono la sera tardi: intere giornate in cui è solo uno strumento di consegna pacchi con ritmi da Tempi moderni.
E con il Let’s go urlato dal boss nelle orecchie, un mantra violento accompagnato dal gelo del suo sguardo. Una voce tirannica introiettata dai lavoratori falsamente autonomi come è diventato Ricky. Le sue corse sono simmetriche a quelle della moglie, che ha barattato la macchina per l’acquisto del furgone di Ricky e ora fatica a raggiungere le persone disabili che assiste. Ci si chiede come faccia, Abby, nei suoi affanni, a rispettare i tempi lenti delle persone a lei affidate. È amorevole, sorride, non perde mai la pazienza. Come con i suoi figli. Sarà Seb, quando assumerà gli atteggiamenti dell’adolescente in crisi, a fare saltare i fragili equilibri, in un crescendo di aggressività che fa temere il peggio.
La tragedia del vivere quotidiano senza diritti
Ci aspettiamo di tutto, che a Ricky rubino il suo prezioso mezzo di trasporto, come in Ladri di biciclette, o che qualcuno si faccia seriamente male. Ma la vera tragedia è quella del vivere quotidiano, dello sfinimento fisico e psicologico, di una bella famiglia che si incrina. Davanti a Sorry we messed you bisogna mettere un filtro emotivo se si vuole reggere fino alla fine. Perché Ken Loach racconta con la sua solita oggettività che non lascia spazio alle lacrime. Ma solo a quel nodo in gola che fa guardare gli spettatori in faccia, dopo la proiezione, con una sorta di spaesamento.
Realismo denuncia e partecipazione
Per rendere più autentica l’adesione degli attori ai loro personaggi e credibile la storia, il film è stato girato in ordine cronologico, come spesso riesce a fare Ken Loach. A tal punto che gli interpreti non conoscono le svolte della trama e il loro stupore si fa reale via via che la vicenda si snoda. Le scene nel capannone da cui Ricky parte tutte le mattine hanno il sapore del documentario, con quelle voci che si sovrastano creando sempre più tensione. Fanno pensare a quelle di In guerra di Stéphane Brizé, stessa denuncia contro la competitività e la redditività, nel sistema selvaggio di un capitalismo altrettanto selvaggio. Ora, ancora di più, con la tecnologia opprimente riassunta nel palmare che registra i minimi ritardi di Ricky su una tabella di marcia già insopportabile. E come per il film di Brizé, stesso discredito del lavoro e dei lavoratori, qui ridotti addirittura in schiavitù.
Deve esistere un’alternativa alla disoccupazione forzata di Io, Daniel Black o lo sfruttamento di Sorry we missed you. Con l’impegno, la sapienza e la sobrietà che gli è consona, Ken Loach lo esclama ad alta voce, coinvolgendoci fin dalla prima inquadratura. Provocando sdegno e compassione; cercando, questa volta più che mai, il nostro reale sostegno, non limitato alla visione del film, ma tradotto in profonda consapevolezza.