Mentre per Il Racconto dei racconti (2015) si poteva dibattere sulla riuscita complessiva del film, in merito alle scelte registiche e alle soluzioni visive e diegetiche, per questo Pinocchio non è necessario arrovellarsi, laddove la medietà dell’operazione rivela fin da subito la chiara volontà di dare corpo a un prodotto (l’utilizzo del termine “prodotto” è voluto, poiché balza agli occhi la sua premeditazione) spendibile in patria e all’estero, contando su un buon riscontro di pubblico e incassi.
Il Pinocchio di Matteo Garrone – è inutile girarci troppo intorno o cercare parafrasi edulcoranti – è un film convenzionale, non necessario, che non aggiunge alcunché. E dispiace dirlo, perché se solo qualche tempo fa Dogman ci aveva provocato fortissime suggestioni, ora trovarsi di fronte a questa operina, a ridosso delle strenne natalizie, immalinconisce un po’.
Un film che non lascia il segno, scorre via come un déjà vu di cui, sinceramente, si poteva fare a meno
Ma Garrone è un regista fin troppo intelligente, dunque chi scrive è persuaso, come già dichiarato nella premessa, che all’origine di Pinocchio ci sia l’intenzione di realizzare un film che metta di buon umore produttori ed esercenti, ai quali il regista si è piegato. Intendiamoci, il film è tutto sommato gradevole, si può andare a vederlo senza rischiare un mal di pancia, ma, è proprio questo il punto, non lascia il segno, scorre via come un déjà vu di cui, sinceramente, si poteva fare a meno.
Roberto Benigni offre un’interpretazione adeguata, così come il giovane protagonista, Federico Ielapi, che con i suoi occhioni incastonati in un volto di legno restituisce tutta l’innocenza e la vitalità del celebre burattino. Uno degli aspetti più riusciti del film è, infatti, l’aver ancor più degli illustri predecessori (primo fra tutti l’indimenticabile Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini) puntato l’attenzione sulla grande umanità del protagonista della favola immortale, il quale anche quando viola le regole, mente o provoca dispiaceri, è sempre animato da un amore per la vita che è quasi commovente, che non può e non dovrebbe essere censurato.
Pinocchio e il fanciullino nietzschiano
Pinocchio sembra quasi il fanciullino nietzschiano, un essere gioioso che vuole “danzare”, mentre tutte le forme istituzionali che gli gravitano intorno cercano in ogni modo di “irregimentarlo”, di riportarlo all’interno di un saldo ordine simbolico in cui sottoporlo alla scialba tirannia dei rapporti di forza. Ma qui si potrebbe aprire una parentesi infinita sulla natura dell’opera di Carlo Collodi, anche se a venire fortemente in mente è la straordinaria rivisitazione che ne fece, per fortuna, Carmelo Bene.
In questo Pinocchio, poi, spesso si avvertono eco del film di Comencini, dalle musiche di Dario Marianelli che, almeno per le sonorità, ricordano abbastanza quelle di Fiorenzo Carpi, e in alcuni passaggi visivi, in particolare per la fatina (e la fata), in riferimento ai costumi e alle ambientazioni. Ottimi, ancora una volta, la fotografia di Nicolaj Bruel e il montaggio di Marco Spoletini, ma il cast tecnico di primissimo livello non riesce a risollevare il tenore generale del film.
Un Pinocchio popolare e fruibile da una vasta platea
Il fatto, poi, che per la sceneggiatura Garrone si sia avvalso della collaborazione di Massimo Ceccherini (che nel film interpreta La volpe) la dice lunga sul desiderio di realizzare un Pinocchio più che mai popolare, semplice, fruibile da una vasta platea. Se ci si mette in questa prospettiva il tono generale del giudizio non può che ammorbidirsi, però rimane forte la riserva sulla gratuità generale di tutta l’operazione.
Si è puntato tutto sul trinomio Garrone-Benigni-Pinocchio: la scommessa sarà vinta? Pinocchio sarà nelle sale dal 19 Dicembre, distribuito da 01 Distribution.