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Una vita tranquilla

«”Una vita tranquilla” di Claudio Cupellini, al suo secondo lungometraggio, con protagonista il mattatore Toni Servillo, era uno dei film, tra quelli in competizione, più attesi al Festival di Roma. Eppure, appena apparsi i titoli di coda, sullo schermo della sala che ha accolto la proiezione, era già evidentemente palpabile la sensazione di delusione del pubblico intervenuto».

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Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, al suo secondo lungometraggio, con protagonista il mattatore Toni Servillo, era uno dei film, tra quelli in competizione, più attesi al Festival di Roma.

Eppure, appena apparsi i titoli di coda, sullo schermo della sala che ha accolto la proiezione, era già evidentemente palpabile la sensazione di delusione del pubblico intervenuto.

Pur trattando di sentimenti – nella fattispecie il rapporto contrastato tra un padre, Rosario (Toni Servillo), fuggito quindici anni prima dall’Italia, dove era un potente boss della camorra, e rifugiatosi in un tranquillo paesino della Germania, in cui gestisce un ristorante caratteristico, e un figlio, Diego (Marco D’Amore), abbandonato senza alcuna spiegazione – l’ultimo film di Cupellini non emoziona.

La dimensione del noir, che il regista afferma fare solo da sfondo, appare in realtà decisiva nel contestualizzare una storia che altrimenti faticherebbe ad appassionare; a parte le citazioni – davvero bello il lungo piano-sequenza che, all’inizio del film, introduce nelle cucine del ristorante di Rosario, riportando inevitabilmente alla memoria lo stupefacente long-take che Scorsese realizzava in Goodfellas (1990) Una vita tranquilla reitera abbastanza platealmente alcuni luoghi tipici del gangster movie, senza raggiungere, però, picchi visivi ed emotivi interessanti. E poi, è inutile nascondercelo, il film di Cupellini ricorda molto, per alcuni tratti, Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, e tanti altri film del genere (vedi L’immortale di Richard Berry, che tra poco uscirà nelle sale italiane), dando fortemente l’impressione del déjà vu.

Il pur bravo Toni Servillo non riesce da solo a sostenere un film che non decolla, come fosse trattenuto tenacemente da un gancio che ne impedisce la partenza. Probabilmente il contenimento nello sviluppo della narrazione è stata una scelta ben precisa degli sceneggiatori, strategia che però non ha funzionato. È come se assistessimo a una pellicola in cui la violenza, elemento decisivo, venisse volutamente trattenuta, per non cadere nel clichè di genere. Risultato: un bollito che non stimola particolarmente l’appetito.

David Michod, con Animal kingdom, è riuscito a fare un’incursione eversiva nel noir, stupendoci un po’ tutti, Cupellini, con Una vita tranquilla, ci ha fatto passare novanta minuti sull’orlo dello sbadiglio. Ci dispiace, ma è così.

Luca Biscontini

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