Con Dio è donna e si chiama Petrunia, presentato e acclamato al Festival di Berlino 2019, e a quello di Torino a Novembre, la regista macedone Teona Strugar Mitevskaha realizzato un film intenso, femminile e femminista. Come sostiene lei stessa, “ogni film con un personaggio femminile fuori dagli schemi e dai ruoli consueti è un film femminista. Petrunya è un simbolo di modernità che si oppone a ben due poteri consolidati, la Chiesa e lo Stato”.
Parrebbe ridicola e grottesca la storia, se non fosse realmente accaduta cinque anni fa, a Stip, in Macedonia, il 19 gennaio. Petrunya, lei, una semplice donna, ha osato sfidare le autorità politiche ed ecclesiastiche tuffandosi nel fiume a recuperare per prima il crocefisso buttato dal Pope. È un rito tra il sacro e profano, rigorosamente maschile, che si ripete ogni anno. Un gruppo urlante di uomini in costume, nonostante il freddo, aspetta il gesto del sacerdote, tra urla goliardiche e poco rispettose. Chi cattura il crocefisso avrà un anno di fortuna e benessere assicurato. Ci si creda o no, l’oggetto si carica di significato simbolico, fantastico più che religioso, ma la sua conquista è anche una prova di virilità. E si pensa che Petrynia con il suo atto sacrilego (uno scandalo senza precedenti) voglia sminuirlo.
La sua ostinazione, poi, nel non restituire il crocefisso, è vista come un’onta inimmaginabile da parte degli uomini del branco. Da Chiesa e polizia, dove non c’è una donna neanche a morire. L’unica che la sostiene è la giornalista televisiva, per dovere di cronaca (insieme al desiderio di primeggiare) o forse per autentica solidarietà femminile. Brava Labina Mitevska, sorella della regista, ora bionda, ambigua e nevrotica. Così diversa dalla donna bruna e intensa che abbiamo conosciuto nel bellissimo Prima della pioggia di Milčo Mančevski. Film che ha meritato il Leone d’oro a Venezia, venticinque anni fa, poi ingiustamente dimenticato, forse mai trasmesso in televisione.
Il personaggio di Petrunya
Petrunya è interpretata da Zorica Nusheva, conosciuta in patria soprattutto per i ruoli comici. Qui riesce invece a rappresentare un dramma e un percorso di consapevolezza, avvenuti nello spazio di un giorno solo e di una notte. Petrunya, in sovrappeso, è considerata brutta da tutti, madre compresa. Lei si mortifica con abiti sformati e capelli tiranti al massimo, e sembra non far niente per piacere. È laureata disoccupata sfortunata. Sola. La sua amica del cuore è del tutto diversa, un contrasto che non crea complementarità, bensì disaccordo. A dire il vero, così goffa nei confronti del mondo, Petrunya non ha un rapporto con se stessa altrettanto perdente. Ama stare nuda, infatti, quando è sola, e in possesso del suo trofeo, lo appoggia al seno scoperto in una scena di grande soddisfazione.
Una società volgare e maschilista
La denuncia di una società maschilista e volgare è così ancora più incisiva. Petrunya ci viene presentata con gli occhi crudeli degli altri, per rendere la sua solitudine, in spazi aperti e gelidi o claustrofobici e bui. Dagli interni della sua povera casa a quelli del posto di polizia. Spesso le inquadrature la confinano nella lateralità dello schermo, le tagliano la fronte. Quando invece è al centro di un’immagine, dà le spalle alla luce, alle porte, alle vie di uscita o di fuga. L’intensità dei suoi primi piani al contrario, ci racconta un’interiorità taciuta, che ora, finalmente, trova modo di esprimersi. Dio è donna e si chiama Petrunya è un film che, per competenze tecniche e narrative, sa creare fin da subito un’empatia nei confronti della protagonista che dura e una forte rabbia per un sistema patriarcale ottuso e violento, che, anche questo, ahinoi, non accenna a scomparire.