Sembrava non dovesse mai morire Alberto Grifi. Da anni assistevamo ai suoi mali, ai suoi danni irreversibili al fegato, al tumore o ai tumori, ben sapendo che uno tenace e caparbio come lui non si sarebbe mai arreso. C’erano momenti di forti crolli fisici, seguiti poi da formidabili e sorprendenti riprese. E Alberto era di nuovo a lavoro, al montaggio o in giro per università e centri sociali a raccontare del suo cinema o della sua visione “politica” della realtà.
Era instancabile, rimetteva continuamente le mani sui suoi materiali, si sforzava di portare a compimento il suo progetto di restauro, per editare i suoi film in dvd e – anche grazie ai ragazzi della società Interact, dove aveva trovato un ufficio e uno spazio per custodire i suoi nastri video – ci era quasi riuscito. L’ultima volta che l’abbiamo visto pubblicamente è stato sul palco della sala Sinopoli dell’Auditorium, dopo la proiezione di “Anna”. La festa del cinema lo ha premiato con 20.000 euro dandogli così ancora un po’ di ossigeno per andare avanti. Lui sempre sfrattato da diversi luoghi, sempre precario, sempre nomade. Quella sera di alcune settimane fa in molti ci siamo resi conto che era davvero invecchiato, consunto, stanco. Ma il sorriso era quello di sempre, così come la gratitudine di chi sa di essere circondato da amici, tanti amici su cui poter contare. Non gli è mai venuta meno la voglia di vivere.
Personalmente ho intuito che purtroppo quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto. Così, quando un amico mi ha comunicato della sua morte, non è stata una sorpresa, ma solo una dolorosa constatazione: questo singolare guerriero si era arreso. Perfino Grifi, dopo tanti anni di una lunga malattia, alla fine si era spento. La paura che avvertivo quando era in vita e che sento ancora di più oggi che Alberto è morto, è il rischio che si trasformi in un monumento. Quanti sono gli studenti (di altri) che sono venuti da me (esperto del cinema underground, ma cane sciolto della docenza) a chiedermi consigli perché volevano fare una tesi su di lui? Tanti, forse troppi. Mi sembrava che andasse un po’ troppo di moda laurearsi su Alberto, magari ignorando altri autori, non meno interessanti ma rimasti più nell’ombra, dimenticati. Tutti parlano de “La verifica incerta” come antenato di Blob, ma chi ha mai visto “Scusate il ritardo” (1968) di Giorgio Turi e soprattutto chi sa se Turi sia ancora vivo (io dal 1999 confesso che non ho il coraggio di telefonargli)? Eppure tanto interesse per Grifi e la sua opera era inevitabile: Alberto è stato l’unico tra gli autori dell’underground che ha saputo e voluto comunicare con i giovani ininterrottamente. Oratore abile e instancabile, capace di parlare per ore, introdurre i suoi lavori ogni volta ripetendo gli stessi concetti, ma in modo sempre diverso e aggiungendo nuove riflessioni. Se la meritava dunque tutta questa attenzione e comunque – anche grazie a lui – i riflettori sul cinema indipendente, sulla sperimentazione, sul video militante, non si sono mai spenti. Alberto ha svolto in questo senso un ruolo indispensabile di promotore. E poi ci sono le opere. I film e i video. Ma non sono neppure la parte più importante.
La vera opera era lui, il suo modo di rapportarsi agli altri, la sua maniera di donarsi totalmente, di regalarsi. Al suo funerale l’altro giorno c’erano molti suoi allievi, oltre ai tanti registi che insieme potrebbero fare una sorta di controstoria, di deriva indipendente del cinema italiano. I film e i video di Alberto sono opere aperte nel senso letterale del termine. Mai davvero concluse, sulle quali ritornare continuamente. Molti di essi sono ancora non montati, o editati in versioni diverse. Molti materiali del suo formidabile archivio sono inediti o poco visti. Le poche cose che abbiamo continuato a vedere e rivedere in questi anni, restano però – e lo dico da storico di “quel cinema” – tra le cose migliori della sperimentazione italiana: anche da un punto di vista tecnico (cosa che non guasta). “Transfert per camera verso Virulentia”, un’opera ipnotica e onirica, il “sogno di una cosa” teatrale che solo lui poteva ri-sognare così, attraverso la lente deformata del fish-eye, suo marchio di fabbrica, metafora della creazione primigenia, allegoria dell’uovo o della lacrima. “Il grande freddo”, ribattezzato “Le avventure di Giordano Falzoni”, è forse la più bella allegoria filmata del fare arte, del concepire l’atto estetico come qualcosa di unico, vitale, liberatorio. Non è solo l’immaginazione al potere ma è il potere dell’immaginazione nel risvegliare le coscienze e nel marcare ludicamente il territorio.
L’artista in campo (Falzoni) e l’artista fuori campo (Grifi) che ogni tanto si autoritrae ed entra anche lui in campo, entrano perfettamente in simbiosi per ricreare uno scambio infinito tra chi dipinge e chi filma o meglio chi dipinge filmando. Perché i dispositivi creati da Grifi, gli effetti speciali, le macchine artigianali da sperimentatore e quasi da pioniere del pre-cinema (o del post-cinema che poi è il video), sono marchingegni leonardeschi che sfidano i brevetti industriali. Grifi non era come l’amico Baruchello – con cui ha realizzato “La verifica incerta “– un artista-filmmaker, ma era sicuramente un filmmaker-artista e artigiano. Come ne “Il grande freddo” così in “Anna” l’autore in campo (Sarchielli) e l’autore fuori campo (Grifi) mettono in scena, giorno dopo giorno, l’esistenza di una ragazza qualsiasi, destinata a una fine terribile, dopo aver raccontato tutta se stessa. Ma non è per cinismo che il cineasta e l’attore assistono impotenti al suo dramma, è semplicemente perché il cinema, pur documentando autenticamente e in diretta quello che avviene nella realtà, è destinato a fermarsi un attimo prima. Esiste comunque un fuori campo, il fuori campo, ed è uno spazio inaccessibile a qualsiasi obiettivo. In questo senso se “Anna” rappresenta da un lato il punto di non ritorno nell’orizzonte di una sperimentazione proiettata verso il futuro del cinema che è il videotape, dall’altro sancisce la sconfitta assoluta del cinema, come strumento di rappresentazione che oltre a non poter cambiare il mondo è incapace anche di mutare una singola esistenza. E in qualche modo, anche se lo sguardo di Alberto continuerà negli anni seguenti a documentare i movimenti e il “movimento” nelle sue evoluzioni (Parco Lambro), l’antipsichiatria (Lia), anche se continuerà ad essere mobile senza approdare mai a qualcosa di definitivo e di concluso, si avverte come un senso di colpa, un rimpianto, l’eco appunto di una sconfitta sul piano umano che grava e condiziona tutto il suo sentire successivo. Il cinema è una verifica non solo incerta, ma impossibile. Non esiste la parola fine nel cinema di Grifi. Il montaggio è una pratica che termina solo con la nostra morte, ha detto Pasolini.
E ritorna in mente questa significativa immagine: fino all’ultimo secondo Grifi, con la pressa Catozzo in mano, continuava nel 1965 ad assemblare spezzoni di film per “La verifica incerta” sulla strada per Parigi. Ma nel ripensare a Grifi e al suo cinema non possiamo – c’è da ripeterlo – non pensare alla sua personale esistenza e allo stile con cui ha vissuto e con cui se ne è andato. Senza chiedere mai nulla, ma concedendo tutto se stesso, mettendo a disposizione il suo bagaglio di esperienze, sentimenti ma anche ragioni da vendere. L’unica cosa alla quale non ha mai rinunciato è stata la coerenza. Grifi non era cineasta da compromessi, autore e uomo in svendita. Ha mantenuto intatta la sua identità, a differenza di molti altri suoi colleghi che, dopo una stagione di libertà, si sono lasciati ingabbiare dalle regole di un cinema mercantile. Sono scelte, naturalmente. Giuste o sbagliate che siano. Ma Alberto Grifi, fino alla noia e alla banalità, ha preferito senza retorica continuare per la sua strada, difendere le motivazioni per cui erano nate le sue immagini in movimento, immagini che si sforzava di rielaborare e di preservare dall’oblio dei tempi e dalla smagnetizzazione del tempo.
Bruno Dimarino