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Conversation

Il cinema è una questione di necessità: conversazione con Pietro Marcello

Ospite d'onore della 25 edizione del MedFilm Festival, che gli ha dedicato una serata evento con la proiezione de La bocca del lupo e Bella e Perduta, l'incontro con Pietro Marcello ha fornito l'occasione per ripercorre tutta la sua filmografia, da Il passaggio della linea a Martin Eden, acclamato all'ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia

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Volevo partire dall’inizio e, dunque, da Il passaggio della linea e considerare il primo fotogramma da te realizzato come regista. Nel tuo caso a presentarti è una frase tratta da un romanzo di Simenon. In effetti tra gli elementi del tuo cinema la matrice letteraria riveste un ruolo importante.

La frase di Georges Simenon in fin dei conti sintetizza il cinema che uno fa, nel quale si torna sempre al punto di partenza e in cui si racconta sempre un po’ la stessa cosa. Mi è capitato di pensare lo stesso con Martin Eden perché con esso si chiude un ciclo del mio cinema. La frase in questione è legata ai treni e appartiene a uno scrittore da me molto amato. Pensando a ciò che vi è scritto e collegandolo a Il passaggio della linea, la prima cosa che mi viene in mente è la circolarità dell’esistenza nella quale si ritorna sempre a dove tutto è iniziato. E, ancora, il treno che scandisce il tempo del viaggio e permette di lasciarsi il passato alle spalle per un altrove che assomiglia al futuro.

Di fatto il percorso che hai compiuto con la tua cinematografia è circolare: per Il passaggio della linea sei partito verso il nord Italia, con La bocca del lupo ti sei fermato a Genova per poi spostarti in Russia, dove hai realizzato Il silenzio di Pelešjan. Con Bella e Perduta e Martin Eden sei infine ritornato al punto di partenza, ovvero a casa.

Il silenzio di Pelešjan lo considero un saggio mai terminato, un ritratto che ha continuato a vivere attraverso lo studio dei film, perché poi parliamo di una scuola ben precisa, fondata sugli insegnamenti di Michail Il’ič Romm. Spesso quando mi chiedono di parlarne non riesco a trovare altre parole. Posso dire che alla pari degli altri saggi anche il mio non finisce mai perché le nozioni e la consapevolezza acquisite nel tempo mi permettono di riprenderlo in mano e di correggerne i difetti.

Un ritratto che continui a riprendere attraverso i film, nel senso che la lezione di Pelešjan si coglie nel montaggio anti-didascalico presente nella struttura dei tuoi lavori.

Ma perché Pelešjan ha teorizzato il montaggio a distanza e il film a lui dedicato parla proprio di questo. Alla pari della mia persona, anch’esso si evolve per il bisogno di confrontarmi sui miei lavori in modo critico e senza alcuna indulgenza. Nel caso di Pelešjan si è trattato semplicemente di una continuazione dello studio fatto in questi anni a proposito del montaggio attraverso il contrappunto. Avevo meno di trent’anni quando ho iniziato a seguire queste cose e, un poco alla volta, sono cresciuto e mi sono “accresciuto” in termini di conoscenza e di applicazione di questo metodo.

In realtà il tuo è un corpus cinematografico in continua evoluzione in cui i film precedenti si ripresentano in quelli successivi. In questo senso, Il passaggio della linea è importante anche nello stabilire quelli che per te diventeranno dei topoi. Mi riferisco al tema del viaggio, alla libertà e all’indipendenza dei personaggi, alla loro purezza.  

Questo perché non sono uno strutturalista e, dunque, credo nel cinema libero; non a caso in Martin Eden ci sono tutti i miei lavori precedenti e questo è possibile perché ho una visione del cinema non inscatolato. D’altronde, i film che amo di più sono quelli spesso considerati imperfetti, poiché non penso che il cinema sia una Settima Arte. Al contrario, si tratta di una disciplina impura e come tale attinge da tutte le altre arti applicate, un po’ come intendeva Tolstoj in Che cosa è l’arte: non è la poesia, non è pittura, non è musica, ma un’alchimia incontrollabile di tutte queste, dunque può essere fatto con devozione, ma anche con cialtroneria.

Tra l’altro il concetto che hai appena espresso corrisponde in tutto e per tutto al sentire e all’agire dei tuoi personaggi.

Ma perché sono un po’ rivoltosi.

Si fatica a descriverli con una sola definizione, a catalogarli in un determinato insieme. D’altra parte, penso sia una cosa che appartenga anche al tuo dispositivo, in cui il documentario è solo uno dei linguaggi utilizzati. Rivedendo La Bocca del lupo non riesco a pensarlo solo come un documentario. 

Ma, guarda, penso sempre al percorso di Ermanno Olmi, che per arrivare a realizzare quello che voleva si è fatto le ossa con il documentario, genere che, oltre a costituire le fondamenta del mio lavoro, mi ha insegnato ad affrontare l’imprevisto di certe situazioni. Nel fare Martin Eden, che ho anche prodotto, mi sono ritrovato a gestire una lavorazione per noi monumentale. che sono riuscito a gestire grazie al metodo appreso con il documentario. Avevo a che fare con una sceneggiatura enorme e poi, come lo chiamo io, con un circo difficile da gestire, fatto di gente esperta e non e abituata a frequentare set mastodontici, al contrario di me che provenivo da un percorso più indipendente. L’esperienza nel cinema documentario è stata quella che mi ha consentito di portare a casa il risultato.

In questa prospettiva, gli imprevisti di Bella e perduta, con la morte improvvisa di Tommaso Castrone, sono stati un bell’allenamento in vista di Martin Eden.

Ma si, io sono anche un operaio del cinema, uno che prende una cinepresa in mano, si carica la pellicola, si sveglia la mattina presto e inizia a lavorare. Cioè, non ho la visione di un cinema comodo, mi piace giocare fuori campo e non amo le comfort zone. Una volta avuta la possibilità di un cinema grande rispetto a quello a cui ero stato abituato ho comunque mantenuto invariate le coordinate del mio modo di lavorare. Al mio fianco ho avuto come sempre Maurizio Braucci, sceneggiatore dei miei film ma soprattutto “fratello”, con il quale ho condiviso il mio percorso di formazione. Con Maurizio abbiamo scritto Martin Eden sapendo che la scrittura è un’opera incompleta perché c’è la trasposizione filmica. Ci sono film della storia del cinema che se leggi la sceneggiatura dici: “ma che roba è?”, oppure altri che sulla carta non sembrano granché ma che poi funzionavano. Poi è chiaro, siamo anche gente del sud, abituata a guardare le cose in un certo modo, anche un po’ fatalista.

L’artigianalità di cui parli fa il paio con la purezza dei tuoi personaggi. Gli si addice.

Nel caso del mio Martin Eden è ovunque.

Conversazione con Pietro Marcello

Nella forma e nei contenuti penso lo si possa considerare autobiografico rispetto al resto del tuo cinema. 

C’è da dire che io mi dissocio completamente dal personaggio di Martin Eden. Credo in un cinema della necessità, dunque penso che bisogna guardare al mondo, ai giovani e in generale alle persone. L’individualismo senza dentro qualcosa di socialista è fine a se stesso, un po’ come l’arte per l’arte. E questo è un po’ il problema del nostro tempo, in cui siamo sempre più soli. In passato probabilmente i registi non si davano tutte queste arie e non erano così concentrati su loro stessi. In Italia abbiamo avuto il Neorealismo perché c’è stata una guerra. I registi di quel tempo erano uniti alle persone, avevano un paese da costruire e delle cose da dire, c’erano delle spinte sociali importanti. Alla luce di questo, credo che sia doveroso chiederci dove stiamo andando e dove sta andando il cinema. Quest’ultimo chiaramente ha un percorso un po’ obbligato: essendo un’industria con la sua economia non ha avuto la libertà di svilupparsi come ai tempi del muto, in cui raggiunse i suoi massimi livelli. Dopo quella fase, sono stati i mediatori e l’industria culturale a decidere quale direzione fargli prendere e tuttora è cosi.  Il risultato ha prodotto un’omologazione presente sia nei lavori d’autore che in quelli di intrattenimento. Tutti fanno film nello stesso modo perché così viene imposto dall’alto. Da qui il mio interrogarmi sulla necessità del fare cinema e la convinzione che senza un’urgenza reale per me sia preferibile dedicarmi all’insegnamento. Visto che ho avuto la fortuna di incontrare delle persone importanti che mi hanno arricchito, riparando, per così dire, alla mia incultura, vorrei fare lo stesso con gli altri. Però, innanzitutto mi pongo delle questioni di “militanza” riguardo al futuro. Probabilmente, quello che oggi manca è un confronto reale, innanzitutto tra chi fa cinema, per capire quale sia la strada da intraprendere. Io ho provato a sceglierne una e sono il primo a interrogarmi sul senso del mio lavoro.

È una domanda che non avrei voluto farti, ma le tue parole mi inducono a chiederti dove ti collochi rispetto al nuovo modo di fruire il cinema e alle polemiche scatenate dall’entrata in campo di Netflix?

Per me è una questione di militanza; quello che manca nel cinema e nella cultura è la militanza del fare, conseguenza di una società edonista basata sulle comodità. Non dico nulla di nuovo, perché negli anni Settanta se ne erano già accorti in molti, compresi Guy Debord e Christopher Lash. Oggi i registi mirano a trovare i soldi per girare i film e portarli in un grande festival dove trovano persone pronte a dirgli che sono bravi e belli. Il problema però è altrove. Quello che manca è un impegno reale perché comunque il cinema è ancora oggi uno strumento potentissimo, senza però essere Settima Arte a causa di un’economia che lo obbliga a creare solo intrattenimento. Per questo diventa fondamentale andare in un’altra direzione e pure sbagliando, cercare strade alternative. Invece di raccontare se stessi bisognerebbe pensare di più alle necessità presenti nella nostra società, ai giovani, innanzitutto. In effetti, ho sempre guardato a personaggi come Ernest Hemingway che vivevano tra la gente per poi prendersi anche delle libertà. Io, per esempio, lo faccio attraverso il montaggio, cercando di esprimere una certa poesia. Ma anche interrogandomi in maniera critica su quello che ho fatto fino adesso.

A proposito di visione del mondo, ed entrando nel dettaglio di Bella e perduta, si può dire che la forma pittorica è un altro degli elementi forti del tuo modo di fare cinema. In particolare, nel lungometraggio in questione ho ritrovato scorci di paesaggio ma anche soggetti che rimandano ai dipinti di De Nittis e Fattori. 

Guarda, non credo. Succede che ognuno porta dentro di sé tante immagini. Io ho sempre amato la storia dell’arte e, come spesso ripeto, avrei voluto fare il pittore, salvo poi ripiegare sul cinema con la consapevolezza di essere un privilegiato nel riuscire a farlo quando ne sento la necessità. Ci riesco anche con pochi soldi e con la libertà di scegliere se fare documentari, lavorare con agli archivi o mettere in scena un’opera di finzione. Riguardo a Bella e perduta ho raccontato innanzitutto il paesaggio dove sono nato e cresciuto. Normalmente faccio ricerche iconografiche ma non ho dei veri e propri modelli perché di questi, come diceva Robert Bresson, non bisogna averne. Piuttosto, sposando le parole di Roberto Rossellini, preferisco avere dei metodi. Nel titolo in questione ho messo la storia dell’arte che porto con me, gli studi fatti da ragazzo, pensando a un cinema di composizione che si metteva sempre in rapporto con la pittura. Oggi si parla di 4K, di 8K, di 10K, però in sé la qualità di un film dipende dal legame forte tra cinema e pittura sul tipo di quello che esisteva in passato. Anche nel cinema italiano abbiamo avuto degli esempi eccezionali: Alberto Lattuada era uno di questi. Non si parla mai di lui, mentre a me piace farlo perché si tratta di un regista che conosceva la storia dell’arte e faceva pittura, qualità che oggi si è persa. Io, per esempio giro, in pellicola perché mi piace lavorare cosi: ho la camera oscura per svilupparla ed apprezzo lavorare in maniera amatoriale; oggi i film si possono fare benissimo anche con i telefonini. Non sono contrario, l’importante è saper filmare e soprattutto comporre. Cosa che spesso non accade. Oggi si parla di qualità senza capire che essa dipende dai rapporti esistenti all’interno della composizione. Se guardi gli operatori dell’Istituto Luce ti rendi conto di quanto sono straordinari; erano documentaristi che realizzavano la pittura a tutti gli effetti. Poi questa cosa nel dopoguerra un poco alla volta è venuta meno.

Se le immagini danno voce e corpo ai tuoi personaggi, allo stesso tempo queste, per loro natura, sono sempre in trasformazione e alla perenne ricerca dell’altro. Così facendo creano una forma riconoscibile in tutti i tuoi lavori.

La forma è importante. Come diceva François Truffaut, riempirsi la vista quando guardi un film è necessario, però ci sono anche i contenuti e questi sono legati a ben altra cosa e, per esempio, a quelli che porti attraverso la tua storia personale. Permettersi la forma va bene, ma prima di questo bisogna avere dei contenuti e perciò qualcosa da dire. Per ritornare al discorso di prima, serve la militanza e capire dove va il mondo. Siamo sempre più soli, sempre più edonisti e narcisisti. Manca una visione collettiva del fare.

Conversazione con Pietro Marcello

Conversazione con Pietro Marcello

A proposito de La bocca del lupo e della continuità dei tuoi film: nella scena di introduzione vediamo Enzo scendere dal treno, che se vuoi potrebbe essere quello dove avevamo lasciato il protagonista de Il passaggio della linea.

Si, esatto. Succede la stessa cosa in Martin Eden, in cui è possibile ritrovare Il passaggio della linea, La bocca del lupo e anche il fatto di arrivare a Genova.

Assolutamente, c’è il mare, il camminare, ci sono tutti i luoghi del tuo cinema. I tuo personaggi spesso camminano attraversando il paesaggio, ponendosi così in contatto diretto con esso e senza alcuna mediazione.

Si, oggettivamente è così.

Per buona parte della narrazione ne La bocca del lupo non mostri la compagna di Enzo. Poi, quando lo fai, Mary diventa assoluta protagonista del lungo piano sequenza in cui è il suo uomo a diventare un comprimario. A parte la magia del momento, fai una cosa davvero rara a questi livelli, capace di trasformare l’intervista ai protagonisti in qualcosa di altro.  

È questa la forza di lavorare con i non attori, nel senso che ho dovuto aspettare sette mesi fino a quando i due, ma soprattutto lei è stata pronta a raccontarsi. Quella che ne viene fuori non è un’intervista ma una confessione; non ci sono domande, è lei che racconta.

È una cosa che si vede di rado nel documentario. Quello che succede all’interno del piano sequenza è pura poesia.

La bocca del lupo è un film, credo, dove c’è una storia vera che diventa favola e in cui c’è tutta la potenza prodotta dalla trasposizione del reale. E un po’ quello che dicevano i surrealisti, si va al cinema per rubare emozioni a noi negate nella vita quotidiana. Il cinema serve anche a questo. Ci eleva, permettendoci di guardare il mondo in un altro modo, e nella sequenza in questione la forza è di essere stati lì in quel momento e aver aspettato che Mary fosse pronta per raccontarsi.

Nella sequenza non ci sono stacchi, se non quando riprendi i cagnolini.

Ma perché era una confessione che è durata circa un’ora e mezza, per cui sono stato costretto a tagliare, facendo venire fuori il tempo del cinema, verso il quale ho un desiderio contrastante: a volte sogno di farne a meno e, dunque, di rinunciare al montaggio, altre in cui mi è impossibile riuscirci, nel senso che bisogna fare delle scelte, decidere da che parte stare. Cattiva o buona che sia, l’importante è farlo. Non ci si può tirare indietro.

In Bella e perduta il fatto che ad attraversare il paesaggio sia Pulcinella, che di fatto è il mediatore tra la vita e la morte, non fa di questo film una sorta di Divina Commedia in cui c’è un’Italia viva e una morta?

Si parla spesso dell’Italia dimenticandosi che essa è anche paesaggio, storia, pale d’altare, geografia. Nel senso che un conto è l’Italia, altro sono le persone che popolano questa terra oggettivamente straordinaria. Il paesaggio che attraversiamo, però, non c’è più nessuno disposto a raccontarlo. Lo fa Michelangelo Frammartino, perché è un regista eccezionale, lo fanno Alice Rohrwacher e Gianfranco Rosi, che pure hanno uno sguardo sul paesaggio. Bisogna ritornare a filmarlo perché è parte di noi, parte della nostra storia.

Venendo dal Festival dei Popoli e dal Concorso italiano, ho potuto constatare un ritorno a questo tipo di sguardo.

Questo è bellissimo e credo che sia una cosa giusta. Il confronto è fondamentale e, ripeto, bisogna ritornare a raccontare il paesaggio. Questo sicuramente lo penso.

In Martin Eden ci sono attori professionisti, uno dei quali, Luca Marinelli, anche di fama. Questo ha cambiato qualcosa all’interno del tuo dispositivo?

Ma per me non è cambiato proprio nulla, nel senso che ho utilizzato gli stessi strumenti di sempre. Riguardo a Luca Marinelli non è che dovevo dirgli da che parte girarsi o come muoversi; per me era importante portare Luca nel mio mondo. Avevo bisogno di lui perché lo sapevo capace di attraversare la parabola esistenziale del personaggio. Ho pensato a lui fin da quando, in campagna, scrivevo il copione assieme a Braucci. Ho per esempio utilizzato le “mie” ragazze, Jessica Cressy e Denise Sardisco, che sono straordinarie e che volevo esordienti proprio per poter mettere sullo schermo una vitalità nuova. Lì ho mischiato le carte, ma Luca era il mio vettore. Martin Eden è un film dove ho fatto scelte importanti perché parliamo già di un romanzo “rotto” fin dalla nascita, molto criticato e a cui, nei contenuti, noi siamo stati molto fedeli. D’altronde, parlando di un individuo anche il nostro film è un po’ “difettoso”. Per fortuna, all’inizio del racconto ho avuto la possibilità di inserire il filmato di repertorio dell’anarchico Errico Malatesta durante la manifestazione a Savona del 1° Maggio 1920. Questo mi ha consentito di dire, va bene, questa è la mia posizione: “Difendo l’individuo insieme al socialismo, senza socialismo l’individuo è solo barbarie”, mentre poi vediamo Luca che una volta raggiunto il successo rimane vittima del suo individualismo.

Dato che ognuno riconosce nei film quelle che sono le proprie suggestioni, ti chiedo se sei d’accordo sul fatto che Luca nella parte finale abbia in qualche modo riproposto nella sua recitazione la figura di Gian Maria Volonté? 

Questo non lo so. Personalmente credo nel metodo, non nei modelli. Non mi sono mai permesso di dire a un mio attore di provare a essere in un certo modo e non credo che Luca abbia pensato a Volonté; poi forse è soggettivo, nel senso che dentro ci puoi ritrovare tante cose. Credo che lì, innanzitutto, ci sia la disperazione, quella che nessuno vuole più vedere. È sempre così, capita lo stesso con i poveri, ti giri sempre dall’altra parte.

Denise Sardisco mi raccontava che a un certo punto hai addirittura fermato le riprese per un certo tempo.

Si, le riprese sono state fermate perché avevo bisogno di tempo. Luca doveva trasformarsi e dovevamo far decantare la prima parte. Il romanzo ha un finale di stampo ottocentesco. Nel caso del film ho trasposto un personaggio americano in Italia, nel senso che Martin Eden è un archetipo: potrebbe essere nato ovunque: è un ragazzo che parte in cerca di fortuna nel tentativo di riscattarsi da tante cose. Il film poteva essere ambientato in qualsiasi posto. L’ho portato nella nostra storia, in quella di Levi, di Silone, di Pasolini, che non sono né Melville, né Stevenson. A confronto dell’Atlantico e del pacifico, il mediterraneo è una vasca da bagno, per cui il mio è diventato un Martin Eden dei luoghi, un po’ marinaio e un po’ campagnolo. Per questo siamo riusciti a raccontarlo in quel modo lì. Anche volendo, non potevo narrare un personaggio americano che non mi appartiene dal punto di vista culturale. In America Martin Eden non è un romanzo conosciuto come quelli d’avventura scritti dallo stesso Jack London. Al contrario, noi ci siamo affezionati Il tallone di ferro e, appunto. a Martin Eden, che è un personaggio anticostituzionale, uno che si riscatta dalla miseria per poi ammazzarsi subito dopo avercela fatta.

Un po’ com è capitato allo stesso London.

Ma sì, è un po’ la sua vita. Nella letteratura moderna di inizio secolo London è stata una delle prime vittime dell’industria culturale. Però anche lui si dissocia dal suo Martin Eden, il che è una critica ben precisa all’individualismo. Io ho lasciato Spencer per mantenere il legame con il libro, ma a Napoli nessuno lo conosceva. E poi il romanzo di London è già una profezia di quello che poi è stato il Novecento. Dopo Spencer abbiamo avuto Nietzsche, Mussolini, Hitler, così nel film si parla di socialismo, di fascismo, di nazismo, perché nessuno di noi quarant’anni fa immaginava di trovarsi a parlare di Brexit, dell’Europa spaccata, di sovranismo e di populismo, come invece succede ora. Oggi la gente parla di fascismo come se fosse una cosa normale. Noi abbiamo avuto un paese disastrato dopo la guerra a causa di questo regime. Se pensi alla storia dell’umanità i settant’anni che ci dividono dal secondo conflitto bellico sono nulla. Per cui per me Martin Eden è un film molto contemporaneo, in cui si parla del presente. Anche lui nel finale diventa come una rockstar del nostro tempo.

E come tutti i tuoi personaggi, a cominciare dall’anziano signore de Il passaggio della linea, anche Martin rifiuta di rimanere incastrato nel ruolo che gli hanno assegnato. 

Beh, Nicolodi era un libertario. Nel caso di Tommaso di Bella e perduta siamo di fronte a L’uomo in rivolta di Camus.

Dell’importanza e del valore di Maurizio Braucci hai già detto tutto tu. Tra l’altro, il suo contributo è stato determinante in film quali L’intrusa, L’intervallo e, non ultimo, La paranza dei bambini. Mi interessava conoscere come avete lavorato in Martin Eden.

Maurizio mi ha fatto leggere questo romanzo quando avevo vent’anni. Lui è prima di tutto uno scrittore e poi, quando si mette al servizio del cinema, anche uno sceneggiatore. Con Maurizio mi sono formato, nel senso che parliamo la stessa lingua, perché i nostri percorsi li abbiamo compiuti assieme. Dopo parecchi anni abbiamo sceneggiato Martin Eden, ma Maurizio come scrittore è uno che ti porta storie piene di contenuti perché è stato anche un attivista con una vocazione sempre minoritaria, un militante nella cultura a partire dal basso. Il lavoro che facciamo appartiene a entrambi perché parliamo la stessa lingua e abbiamo letto gli stessi libri. La trasposizione del libro in film è innanzitutto merito suo perché è lui che l’ha fatto. Io ho diretto il film, lui lo ha scritto. La riduzione è sua e, bada bene, parliamo di un romanzo di seicento pagine. L’azzardo è stato grosso fin dall’inizio e diciamo che noi abbiamo giocato sempre fuori campo, perciò non abbiamo avuto zone di comfort. È stata una scommessa, un azzardo trasporre Martin Eden!

Conversazione con Pietro Marcello

In realtà Martin Eden è un film che è piaciuto molto ai giovani. Uscendo dalla sala e parlando con loro, è evidente che si è trattato di una storia molto sentita.

Ma perché è un film che sposa il cinema popolare e il cinema di sperimentazione, cioè questa è stata l’ibridazione e, al tempo stesso, la scommessa. Abbiamo potuto azzardare innanzitutto perché attraverso Avventurosa siamo i produttori del film. In un certo senso, è un lungometraggio fatto in famiglia. Spesso si parla di industria, ed è vero che li abbiamo trovato i soldi per farlo, ma fondamentalmente è stato prodotto come sempre abbiamo fatto. Con Braucci non ci sarebbe bisogno neanche di metterci al tavolo a discutere perché il fatto di essere così simili fa sì che se mi dà una sceneggiatura io giro il film. Non è che quando lavoro con lui gli dico: “va bene, però tu mi devi garantire questa cosa”. Non c’è niente da garantire, perché sono io il primo a non credere completamente nella scrittura, poiché, in sé, essa è un’opera incompleta, a cui manca la trasposizione filmica. Spesso ci sono registi che chiedono allo sceneggiatore di risolvergli il problema, mentre sono loro che ci devono pensare. Il problema della scrittura è proprio questo, ovvero che spesso ci sono film fatti a tavolino ai quali, una volta girati, viene a mancare un’anima. A me questo non interessa e con Braucci non stiamo neanche a discutere di questa roba. Cioè, si fa il film prendendosi ognuno i suoi compiti. Se poi ho bisogno sono io il primo a rivolgermi lui per farmi consigliare.

All’inizio dell’intervista parlavi di Martin Eden come di un film conclusivo, per cui ti chiedo se già hai un’idea di cosa ci sarà nel tuo futuro riguardo al cinema. E, davvero per concludere, qual è il cinema che ti piace? 

Ma, guarda, per me è una questione di necessità: se avrò qualcosa da dire lo farò, altrimenti mi dedicherò all’insegnamento, perché mi sembra che in questo momento sia la cosa più interessante da fare, sempre se avrò qualcosa da dare ai giovani. A me non interessa il cinema di intrattenimento, e poi credo di aver fatto un percorso solitario e senza compromessi, non perché sia un duro e puro ma semplicemente in ragione del mio modo di fare cinema, che è fatto di fatica e di necessità, ma anche di dubbi, che poi sono la mia linfa vitale. Dunque, posso ritornare senza problema a lavorare negli archivi facendo documentari e reportage come pure film di finzione e ancora cercare nuove strade. Ma, innanzitutto, per me questo sarà un momento di riflessione per capire quali sono le mie urgenze, avendo uno sguardo per un cinema necessario. Questo è quello che mi interessa, di poterlo cambiare. E quello che penso del cinema non sono i modelli che sono convinto non si debbano avere. Spesso le critiche internazionali mi associano al cinema di Visconti, di Fellini, al cinema di Bertolucci. In fin dei conti sono autori che apprezzo, ma che non mi appartengono come riferimento. Quando penso ai film della mia vita non li considero nel loro insieme, ma come momenti tratti da essi e a volte si tratta di opere sconosciute. Ti ripeto, non ho modelli, per cui le note sul cinematografo di Bresson e il metodo di Rossellini sono delle piccole bibbie dove ci sono degli autori eccellenti che hanno saputo insegnare qualcosa agli altri .

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