Come mai hai scelto proprio il docufilm come forma di racconto?
Già il fatto che il film sia stato inserito in selezione ufficiale alla Festa Del Cinema di Roma, quindi nella sesta selezione di cinema come The Irishman e tanti altri, dimostra che oggi parlare di catalogazione in generi (non solo nel cinema) è abbastanza discutibile. Oggi, lo spettatore vuole solo essere messo in condizione di emozionarsi e riflettere. Che il metodo sia la finzione, la ricostruzione o il documentario d’osservazione o altro è poco influente. Nel caso specifico della storia di Santa Scorese, quello che realmente conta è raccontare sull’oggi e sul presente, visto che quasi ogni giorno sentiamo fattacci che riguardano le donne.
Tra l’altro, c’è una grossa differenza tra come venivano presentati i femminicidi all’epoca, nel 1991, e oggi.
Raccontare la cronaca, la ragione sociale della televisione, rende la narrazione più superficiale, più frettolosa: quasi sempre ci si sofferma di più sull’assassino, anziché sulla vittima; molto spesso, si fa una ricostruzione molto sommaria delle informazioni disponibili, c’è una ricerca spasmodica delle immagini che documentino i fatti. Nel caso mio, per raccontare una vicenda ormai stratificata nel tempo, ho scelto di approfondire maggiormente la storia personale della vittima e di chi le stava vicino, e non quella dell’assassino. Quest’assenza di fretta ci ha consentito i giusti tempi di ascolto delle persone coinvolte e di proposizione del racconto non più come fatto di cronaca, bensì come storia personale.
Il film procede lungo un doppio binario: da un lato i “sopravvissuti”, dall’altro la figura di Santa. Inoltre, il diario della vittima è centrale per la sua presentazione.
Le pagine di diario di Santa sono sicuramente centrali lungo tutto questo racconto e la rendono presente all’interno della storia. Avendo inoltre lei una forte personalità e una bella rete di amicizie e familiare, le testimonianze la rendono fisicamente presente. Si parla infatti al presente. C’è una costruzione narrativa dove Santa è centrale e all’inizio del film si ha poco la percezione di ciò che accadrà nel corso della storia. Questa è una costruzione tipica del film narrativo. Vista la contaminazione tra le forme, oggi è veramente difficile distinguere tra finzione e documentario.
Quindi è una costruzione voluta anche quando alcune immagini finali richiamano il vuoto? Mi viene da pensare, ad esempio, al percorso del treno sui binari o alla scena della madre di Santa che stende i panni.
Ho scelto di utilizzare quelle immagini per raccontare la normalità di questa famiglia, con tutti i problemi, le aspirazioni, lo sguardo verso il futuro della figlia, tipici di qualsiasi famiglia. Essa è stata poi messa a soqquadro da una casualità, un’ossessione che poteva essere messa in grado di non nuocere. Sarei presuntuoso, però, nel dire che il nostro piano di lavoro fosse preordinato. Con Laura Grimaldi, abbiamo impostato una scrittura sulla base delle informazioni di cui disponevamo all’origine. Il tessuto narrativo del film è scaturito dall’incontro con loro e dalla consapevolezza che fosse arrivato il momento di far raccontare ai protagonisti di questa storia la vicenda in maniera nuova rispetto ai programmi televisivi o ai servizi dei telegiornali che abbiano già raccontato la vicenda di Santa. Mi piace sottolineare che la grande differenza di questo lavoro è proprio il tempo messo a disposizione dei testimoni della vicenda per far venire fuori il loro sguardo sulla verità.
Quanto hai impiegato a girare?
Abbiamo impiegato molti mesi: ci siamo sintonizzati sulla stessa onda del loro sguardo e soprattutto del loro cuore. Abbiamo consentito a persone non abituate alla telecamera, come il padre Piero Scorese, di aprirsi con noi senza sentirsi giudicate. Grazie a quell’ascolto, alla fine di ogni intervista, molti dei protagonisti non hanno potuto far a meno di notare che fosse la prima volta in cui ascoltavano determinate parole riguardanti il fatto. Ci siamo messi al servizio di queste persone, mettendole in condizione di tirar fuori la loro verità. Ne sono particolarmente orgoglioso. Alcune testimonianze, quelle dei genitori di Santa in particolare, sono tra le cose più forti che io abbia mai sentito nel mio percorso come regista.
È impressionante sentire come la sorella di Santa abbia una visione lucida dell’accaduto. Riconosce due vittime: una è Santa e l’altra è l’assassino, che poteva probabilmente essere curato in tempo.
Ho deciso di raccontare questa storia nel momento in cui ho ascoltato la sorella Rosa Maria, che ne parlava in un evento in pubblico. Quando ho sentito una sorella di una vittima di stalking parlare dell’esistenza di una doppia vittima, ho pensato se io sarei stato mai capace di utilizzare quelle parole. Affascinato e stupito da quest’approccio, ho capito che dietro questa storia c’era qualcosa di significativo ed emblematico da raccontare: da un lato la famiglia di Santa e dall’altro l’assenza delle istituzioni e dello Stato. Ho pensato che ci fossero gli elementi giusti per far riflettere tutti noi.
È emblematica, poi, l’immagine del martirio come chiave di lettura dell’assassinio di Santa.
La religione, all’interno di questo film, è come un fil rouge che lega la famiglia: una famiglia particolarmente devota che trasmette un forte senso di spiritualità alla figlia, finché non diviene un problema e una perdita, nel momento in cui Santa esplicita la sua volontà di prendere i voti. Anche raccontare tutto questo è un mettersi in discussione che mi ha particolarmente colpito. Questo personaggio frequentava gli ambienti parrocchiali dell’associazionismo cattolico, con un approccio molesto. Lui insidiava le persone degli ambienti cattolici. Le amiche di Santa, tutte molte credenti, si dividono tra chi vede nel suo assassinio una predestinazione, e quindi un martirio, e chi, invece, parla di una mano non divina che è munita di coltello, che ha stroncava una vita e che si poteva tranquillamente fermare, se le istituzioni fossero intervenute in tempo.
Anche dalle lettere, si comprende quanto Santa soffrisse e si sentisse privata della libertà per colpa di quest’uomo.
Era una ventenne, era piena di voglia di vita, soprattutto nel caso di Santa che avvertiva il bisogno di aiutare il prossimo. Lo stalking è durato tre anni: quest’uomo le ha cambiato molto la vita, ma non è arretrata di un millimetro. Arretrare avrebbe significato cambiare città, smettere di frequentare gli ambienti parrocchiali. La volontà forte e la vocazione molto sincera le hanno permesso di andare fino in fondo. In alcune sue lettere si percepisce chiaramente la sua preoccupazione e l’idea che questo stalker avesse delle intenzioni pericolose nei suoi confronti. Il suo persecutore era sistematico nella sua volontà di molestia, probabilmente erano già molte notti che attendeva il suo rientro in casa e ha approfittato di quel momento in cui Santa non era accompagnata da amici e familiari per agire indisturbato.