El Hoyo di Galder Gaztelu-Urrutia presente in concorso al 37 Torino Film Festival è una riuscita distopia sulla società contemporanea.
Un uomo di nome Goreng si risveglia in una prigione verticale insieme a un anziano compagno. Al centro della stanza c’è una fossa in cui scorre, dall’alto verso il basso, una piattaforma con ogni prelibatezza. A ogni piano, una volta al giorno, per due minuti, la piattaforma si ferma e i prigionieri possono mangiare. Ma il problema è che chi sta in basso ha sempre meno cibo per l’ingordigia e l’egoismo di chi sta in alto. Ogni trenta giorni un gas addormenta la coppia di prigionieri e, come in una lotteria, si risvegliano in un piano diverso.
Il nucleo centrale della pellicola è tutto centrato sulla lotta di classe che si è trasformata in una lotta al più forte per la sopravvivenza. Le ideologie sono morte ed esiste solo una massa di individui isolati che sono disposti a sfamarsi della propria carne e di quella altrui (letteralmente).
Il regista basco appare continuare il discorso iniziato più di vent’anni fa da Vincenzo Natali con Cube, di cui El Hoyo è un diretto discendente per atmosfere e denuncia sociale. Ma se nella pellicola del regista canadese c’era una esplicita rappresentazione del potere onnisciente che controlla spazio e corpi, nel film di Gaztelu-Urrutia si spinge il pedale più verso una rappresentazione plastica della stratificazione della società in diversi livelli, dove chi sta in alto ha tutto, chi sta in basso non ha nulla.
Il nucleo centrale della pellicola è tutto centrato sulla lotta di classe che si è trasformata in una lotta al più forte per la sopravvivenza. Le ideologie sono morte ed esiste solo una massa di individui isolati che sono disposti a sfamarsi della propria carne e di quella altrui (letteralmente). Tutti sono sovrastati da l’Amministrazione, ente metafisico e incorporeo, che opera su tutto come un’evoluzione del Grande Fratello di orwelliana memoria. L’unico scopo dell’invisibile leviatano appare il mantenimento allo stato animalesco dell’uomo. El Hoyo raffigura essenzialmente il cannibalismo sociale che una società consumistica estrema provoca. Siamo ciò che mangiamo, in tutti i sensi.
El Hoyo è un’opera prima potente che si pone tra il teatro dell’assurdo di Beckett e di Ionesco e la fantascienza sociologica degli anni Settanta.
Il protagonista Goreng poi si è fatto rinchiudere volontariamente per sei mesi in questa prigione per ottenere in cambio “un titolo” che gli permetta di avanzare nella società. È evidente la metafora della rinuncia alla propria libertà personale pur di affermarsi in una società escludente e spietata. Cosi come il male è insito all’interno stesso dell’uomo e la “fossa” sembra un ascensore del e all’inferno. Se i piani sono 333 e per ogni piano ci sono due prigionieri, nella prigione sono sempre rinchiuse 666 che è poi il numero della Bestia. Il Male è presente costantemente nelle azioni degli uomini e nei dettagli di regole assurde.
Con pochi mezzi a disposizione, il regista utilizza al massimo la macchina da presa con piani sequenza stretti. Crea un montaggio che dà il tempo del ritmo delle immagini e degli scontri verbali e fisici tra i protagonisti. Inoltre, la musica si ascolta come il suono di un metronomo che fornisce allo spettatore a livello inconscio lo scorrere del tempo della visione e delle lunghe elissi temporali. Pur con alcune metafore un po’ troppo evidenti, El Hoyo è un’opera prima potente che si pone tra il teatro dell’assurdo di Beckett e di Ionesco e la fantascienza sociologica degli anni Settanta.