Si può davvero rinnegare il proprio passato, le proprie radici, la propria storia? Pare indagare tutti i possibili risvolti di questa domanda un film come Synonymes di Nadav Lapid, già premiato con l’Orso D’Oro a Berlino e ora presentato nella sezione Onde al Torino Film Festival.
Una pellicola parlatissima, quella del regista israeliano, imprevedibile e astratta che cerca le sue risposte in una vicenda dove è il linguaggio a farsi vero protagonista, unico metro di misura e paragone per definire chi realmente siamo o chi vorremmo essere.
È così che per il giovane Yoav (l’esordiente Tom Mercier), autoesiliatosi a Parigi da un paese, Israele, che non vuole più riconoscere come proprio, la lingua francese diventa un fattore identitario, l’unico modo per emanciparsi dal proprio retaggio, dalla propria cultura, persino dalla propria identità. Nudo, in una casa spoglia, con il solo imperativo di non parlare più nella sua lingua d’origine, Yoav inizia il suo viaggio come una tabula rasa, una lavagna pronta a ricevere parole, sensazioni, stili di vita di un mondo che non gli appartiene. Un mondo che il ragazzo tenta febbrilmente e follemente di catturare con le parole, ripetendo sinonimi come un mantra per le strade di Parigi, quasi tentando di gettare un incantesimo sulla città, di fare propria quella nuova realtà per poterla guardare non più con gli occhi di un esule ma con un vero senso di appartenenza.
Ispirandosi alla propria esperienza personale Lapid, al suo quinto film dopo le prove maiuscole di Policeman e The Kindergarten Teacher, intesse così un racconto funambolico alla ricerca di quell’unica, semplice domanda capace di dare un senso a un’intera esistenza. Il passato, però, è qualcosa di difficile da sconfiggere, superare, cancellare, un fardello che torna ciclicamente come quelle “storie israeliane” – flashback intrisi di mitologia e sprazzi surreali dove si confondono tra loro storia individuale e collettiva – che Yoav vorrebbe esorcizzare per poi cedere ad altri, liberandosi definitivamente della sua infanzia, dei suoi genitori, di una società machista che non riconosce più come propria.
Scheggia impazzita e vibrante, flaneur disperato che gira la città in cerca di una seconda pelle, il giovane racchiude così in sé tutta la forza di un film che in lui si rispecchia, vitale e vibrante come la ricerca di una risposta che si perde tra contraddizioni e nuove prese di coscienza e che resta, forse, inevitabilmente oltre la nostra portata.