Gli ultimi giorni dell’Umanità ora a Venezia79 é il primo e ultimo film realizzato sul patrimonio visionario e fattuale di Enrico Ghezzi. Qui l' intervista fatta da Taxidrivers nel 2019 in occasione del crowdfunding per finanziare il film.
D’altronde lo sapevo che intervistare Enrico Ghezzi non sarebbe stata cosa facile. O comunque, in ogni caso, ordinaria.
Ma non perché il soggetto in questione sia refrattario a rispondere, al contrario. Quando fa per rispondere a una domanda, il padre di “Blob” e “Fuori orario”, in realtà, non si limita a fare solo questo. Piuttosto sembra scoperchiare interi universi di senso, attraverso parole che mentre affermano, al tempo stesso, negano sé stesse. Fino a relegare a uno spazio minimo anche quello che era uno dei motivi cardine del nostro incontro, ossia l’inizio del lavori su Gli ultimi giorni dell’Umanità, sorta di opera testamentaria in cui Ghezzi – grazie ai ragazzi di Malastrada Film e al sostegno di una serie di amici illustri tra i quali Mario Martone e Toni Servillo – prova a comprimere 35 anni di riprese (circa 500 nastri e 700 ore di girato) in un unico (non)film di 100 minuti.
Ma è lo stesso Ghezzi ad avvertirmi, all’inizio del nostro incontro, dicendo che “sai, le interviste non sono la cosa che mi riesce meglio”. Per fortuna, mi permetto di aggiungere. Infatti, dopo un’ora e mezza, esco da casa sua con la netta sensazione di non aver fatto solo un’intervista, ma molto di più. Uno scambio che, nella mia testa, continua a generare significati (e significanti) man mano che passano i giorni. E che anche adesso, rileggendolo, mi sembra addirittura prescindere dalle mie stesse domande e vivere di vita propria.
Che poi, a pensarci bene, è proprio quello che ci si aspetta intervistando Enrico Ghezzi.
Fabio Giusti
Tutte le immagini presenti nell articolo ci sono state donate dai produttori del Film. Si ringrazia Ecce Dance, Malastrada Film, Zomia, H12 e tutta la Banda Ghezzi che ci ha dato la possibilitá di entrare nel progetto Gli ultimi giorni dell’Umanità da Media partner
INTERVISTA A ENRICO GHEZZI
Enrico, mi piacerebbe cominciare quest’intervista parlando del primo film di cui hai memoria. La tua prima “cosa mai vista”…
Il primo film di cui ho memoria… è anche il primo che io abbia mai visto. Era I rivoltosi di Boston, un film di Robert Stevenson che parlava della famosa rivolta nel porto di Boston. Quando i coloni americani, insofferenti al dominio inglese, buttarono nel porto l’intero ammontare depositato dagli agricoltori. Forse non è neanche un gran film, ma la sua unica fatalità è che non l’ho più dimenticato. Sono contento di citarlo, perché è un’ipermemoria che spesso lascia senza parole. Un altro film, ma meno importante di questo per me, era Spartacus. Li vidi entrambi quando uscirono al cinema.
Come è cambiato il ruolo del critico cinematografico nell’epoca dell’editoria online e dei social network, in cui tutti sono, a loro modo, un po’ critici. Ha ancora importanza avere degli strumenti di analisi del testo? E, soprattutto, c’è ancora gente che legge la critica cinematografica?
I mezzi a disposizione sono virtualmente infiniti, resi ancora più virtuali dal fatto che l’ultima parola non c’è mai. E questa sarebbe l’unica cosa positiva del lavoro in rete. Che intanto deve essere una cosa molto spinta verso la libertà, ma libertà del testo, non tanto come il concetto di libertà che solitamente si associa alla rete, che libera lo è solo apparentemente. Di fronte alle parole scritte in rete, la critica fa ridere, come fanno ridere certe cacofonie. Sembra esserci un’antropologia inevitabile in questo. Il discorso si sposta sempre sull’erudizione, al limite del fanatismo. Mi ricordo questa scena sospesa nel nulla. Erano gli anni 90 e mi trovavo in un padiglione del Festival di Torino, quando incontrai una ragazza che conoscevo. Era insieme al suo fidanzato ma sembrava non poterne più della sua compagnia. Così mi dice “lo lascio un po’ con te perché non lo reggo più”. Lui si avvicina con il suo zainetto in mano, aspetta che io saluti altre persone – perché non voleva assolutamente parlarmi davanti ad altri – e poi mi dice “ho una curiosità. Ma è vero che lei ha visto tutti i film?”. “Intendi i film presentati qui al Festival?” rispondo. “No, nel mondo”. Una domanda di grado zero se vogliamo, però molto intensa e che ogni tanto mi ritorna alla mente. Ecco, raccontarti questo aneddoto è un po’ il mio omaggio al “cinefilo ignoto”. Quello che resta è una sintassi, una grammatica di qualche punto di riferimento. Ho conosciuto solo due o tre cineasti modesti…senza la modestia non vai da nessuna parte, laddove tutti quelli che invece sanno “come stanno le cose” andrebbero messi in una prigione cinefila. Soprattutto se ti definisci un esperto, come puoi non aver esperito che la cosa più intensa, più vera – se ci fosse una verità filmica – è la visione che sa già di essere spiaccicata in faccia e che attraverserai con immane fatica o indifferenza. Senza vie di mezzo.
Un visionario
Molti articoli, parlando di te, utilizzano l’aggettivo “visionario”. Ti riconosci in questa definizione?
E’ un termine lasciato a metà strada nell’analisi della situazione, e che non basta. Non basta a me, ma non basta neanche ai visionari. Visionari lo siamo di certo, e dico “siamo” non come plurale ma come attesa di plurali che arriveranno…solo troppo tardi. Soprattutto troppo tardi.
Intervista a Enrico Ghezzi. Blob e Fuori Orario
Sei reduce dalle celebrazioni dei 30 anni di “Blob” e “Fuori orario”. Intuendo la tua natura poco incline a questo tipo di omaggi, volevo sapere se lo avevi vissuto come certi attori accettano i premi alla carriera o anche lusingato per il riconoscimento a un lavoro che comunque ha cambiato il modo di fare cultura in TV.
Più che reduce sono recidivo…reci-divistico. Da una parte è triste che quasi tutto sia dovuto a questo anniversario. Per il resto la vivo più come una punizione tardiva che non come un riconoscimento. Trovo sempre molto buffi questi ritorni accattivanti. Ciò di cui in realtà mi sono reso conto e che ho trovato più intenso è stato sentire parlare persone con una certa cognizione di causa di cose che io quasi non ricordavo. Non è inaccettabile che si venga citati o omaggiati in maniera spesso dissimulata. Questa dissimulazione è, in qualche modo, sempre onesta, perché su quello che ho fatto non ho diritti di proprietà di alcun genere, e neanche ne voglio avere. Possiamo dire che uno dei metodi più interessanti per studiare e apprezzare la televisione di ogni grado, di ogni bassezza o altezza, è vedere chi c’è. Ma non chi c’è dopo due anni, ma le variazioni nella parte schiuma, nella parte finale, positiva o negativa, del rapporto di lavoro.
Anche se io scrivo per una testata che si occupa principalmente di cinema, non possiamo non parlare un po’ di “Blob”. Perché in realtà con “Blob” tu hai sdoganato, anche presso un bacino piuttosto ampio, il concetto di metatesto. Anzi, addirittura un doppio metatesto: in senso letterale perché era TV fatta della stessa materia della TV, ma anche perché era uno specchio deformante all’interno del quale il pubblico guardava il peggio di sé e ne rideva. Secondo te quanta consapevolezza c’era in questo ridere di se stessi?
La comicità è una di quelle cose che arrivano e tu non la capisci. Se tu capissi la comicità…non devi andare dalle parti rispettabilissime e geniali di Aristofane. Credo che la cosa principale resti sapere, e godere se si può, di questa massa di informazioni che ti travolgono, come una valanga – concetto anche cinematografico che trovo stupendo – o un cavallone. In questo senso c’è una visione ambigua.
Una volta hai detto che la TV è un mezzo assolutamente non controllabile. Ma “Blob”, rimontandola secondo un flusso di senso “altro”, non la rendeva invece del tutto controllata, pur lasciando che restasse TV?
No, perché alla base resta una questione di tempi e “Blob”, di fatto, è IL tempo televisivo, rimangiato dopo tempi che possono essere diversi, alle volte anche gioiosi, o che possono avere un effetto diarroico. “Blob” è già stra-controllato, proprio perché lavora e gioca sul ristretto, sulla cortezza. Spiace, perché anche solo per capirne cinque minuti dovremmo rivedere almeno una trentina di ore. In qualche modo è questo che continua a essere il compito più o meno inconsapevole di chi lavora a “Blob”, laddove per ‘chi lavora a “Blob”’ intendo anche tutti quelli che lo vedono,,,e parecchi di quelli che non lo hanno visto e mai lo vedranno. Alla base di tutto c’è un senso di profonda incoscienza, infatti “Blob” nasce come piccolo gesto politico. Noi pensavamo che ci avrebbero fatto chiudere nel giro di una decina di giorni, un po’ come era stato anche per “Fuori orario”. Mentre si colmava un ritardo, un buco, quello era già “Blob”. E “Fuori orario” era ancora meno controllabile di “Blob”. Benché abbia maggiore controllabilità dal punto di vista dei numeri, “Fuori orario” è più incontrollabile perché richiede più attenzione e intenzione nel prepararsi e nel farsi. E in “Fuori orario” tutto è ristretto e immediatamente espanso. Puoi stare a vedere, mentre stai raggiungendo la saletta di montaggio e il montatore ti aspetta, delle immagini di Samuel Fuller che riconosci subito, oppure un film di Byron Haskin, che cito non a caso perché è un grandissimo sottovalutato. E mi è capitata molte volte questa cosa di essere (ri)sorpreso…il trasalimento di fronte a quello che stai vedendo e a come lo vedi. Magari lo hai visto cento volte e non ce la fai a non rivederlo, perché è difficile liberarsi dalla stretta di questo fascino. Come quando credi di morire perché, da un lenzuolo amoroso, non si riesce a togliere un nodo.
“Blob” e “Fuori orario” sembrano ragionare sul controllo del tempo attraverso la sua compressione e dilatazione. C’era in questa dicotomia una sorta di contrapposizione tra il tempo di fruizione – e, di conseguenza, di persistenza nella memoria – della TV e del cinema?
Sì, ma in un certo senso la contrapposizione tra TV e cinema è secondaria. Il cinema tutto è plurale e pieno di punti di vista.
Uno dei più grandi meriti di “Fuori orario” era quello di non fare alcuna distinzione tra cinema alto e basso. Un confine che, poi, per anni è stato considerato estinto. Non trovi che in realtà abbia finito con l’estremizzarsi a tal punto da aver reso quasi tutto il cinema medio?
Il problema che poni non ha a che fare con il cinema in sé ma con la distribuzione. C’è sempre più un cinema che potrebbe essere più interessante e che definiremo “grigio”, che curiosamente non si trova proprio nel suo set. E, nel cinema, se perdi il rapporto con il set, perdi tutto. Ho l’impressione che il perdersi del set, se ha un senso quello che dico, perda tutto il suo farsi, che è il punto essenziale della Storia del cinema degli ultimi dieci anni. Il cinema si barcamena come può – anche eroicamente – oscillando tra trionfo del corpo (asciugato) e il cinema che viene proposto come trailer della realtà intensificata, che è uno dei concetti più nefasti e comunque interessanti prodotti dal cinema negli ultimi dieci anni. Un fenomeno che, se non lo stessimo già vivendo, mi farebbe anche paura.
Come è nata l’idea della voce fuori sincrono in “Fuori orario”?
E’ nata lo stesso anno in cui Jean-François Lyotard fece una istallazione per il Beaubourg sul tema del visibile e dell’invisibile. Per l’invisibile c’erano un paio di non vedenti che brancolavano nel buio.
C’è qualcosa che non sei riuscito a mostrare in “Fuori orario”? Qualcosa che rimarrà davvero “mai visto”.
Per “Fuori orario”, come anche per “Blob”, L’intenzione era quella di rifare ciò che fanno alcuni programmi soprattutto sul piano della durata, ma lì ci voleva un doppio o triplice abbandono quindi una cosa che anche se era impensata, voluta…i contratti con le persone conosciute…praticamente solo con cose che hai amato o che ami non rendeva però diverso il senso di obbligazione, di contratto/contrasto. Quello che non siamo riusciti a fare è lavorare sulla durata. Che sembra nulla ma la durata è talmente poco diffusa e praticata, ma anche desiderata poco da chi la fa…da chi non la fa ma la vede lo sapremo, anche se i pochi esperimenti in merito sono positivi. “La magnifica ossessione” che spesso ci dimentichiamo che è l’inizio di tutto: per i 90 anni del cinema, 40 ore non stop (salvo il tempo per una partita di pallanuoto) vedere quello o vedere due corti di Laurel e Hardy, oppure una valanga mediante la quale viene interrotta una ripresa che poi viene uccisa come l’operatore. Eppure quelle 40 ore sono rimaste epocali. Ne “La magnifica ossessione” c’era il film di Douglas Sirk dove si avverte una cecità più lacerante: Secondo amore, che ha dentro la seconda o terza scena più bella di film “medi”. Un Sirk doppiamente cinefilizzato, sia in Germania e in Austria e poi a Hollywood e questa scena non è mai stata vista a “Fuori orario”. La scena del televisore, regalo dei figli per Natale, che poi diventa lo specchio nel quale Jane Wyman può vedere nel suo sguardo i segni dell’oppressione che vive interiormente e Rock Hudson che, mostrandole questa TV, le dice “guarda che bella, con questa non ti sentirai più sola…”.
Enrico, se dovessi spiegare a qualcuno l’attuale situazione politica attraverso un film, quale sceglieresti?
C’è una tale continuità, sempre le stesse facce che non si ricordavano neanche. Discorsi che non si ricordavano perché non ce ne erano… e non ce ne sono tuttora. Dico che, probabilmente, per trovare un senso alla televisione bisogna trascurarla e vedere come la vede chi la trascura e ne è trascurato. Non è un discorso di qualità. Io tengo sempre il televisore acceso ma senza audio, come adesso. E se anche tu hai un minimo di sensibilità all’immagine/vicinanza o all’immagine nuda, quello non è cinema. Il cinema forza queste immagini come un aguzzino, tanto che adesso si lotta sul filo della realtà aggiunta. Ecco, la politica sembra sempre una realtà aggiunta, quando invece è una realtà diminuita, e sottostante al canone.
Il doppio Soderbergh.
Che ne pensi della maturità raggiunta dalla serialità televisiva negli ultimi anni dopo che per decenni la TV veniva considerata un po’ la “cugina sfigata” del cinema in termini di narrazione?
Il punto principale è rappresentato dalle possibilità e dalle necessità sul piano del rapporto tempi/denaro. Senza tirare in ballo Warhol, l’unico al mondo è stato ed è tuttora Steven Soderbergh, che fa tutte e due le cose e anche di più. Ti può fare anche un filmino di un matrimonio con una libertà che solo lui può permettersi rispetto alla dicotomia riuscito/fallito o costoso/cheap. Trovo in lui un’assoluta novità in termini di semplicità e di già visto. In questo senso Soderbergh – e chi eventualmente riesca a fare lo stesso cinema con la stessa libertà – è già oltre la divisione tra cinema alto e basso. Mi piacerebbe assistere a una delle riunioni ridotte della troupe di Soderbergh e poi pensare che è lo stesso che ha fatto Solaris, forse il suo film più devastatamente non amato.
Però Soderbergh è stato un po’ relegato ai margini del sistema hollywoodiano negli ultimi anni.
Sì, ma anche nei primi anni. Gli è andata bene finché ha vinto premi. Diciamo che è stato preliquidato.
Cosa ne pensi invece della tendenza a produrre film che non nascono per la sala cinematografica bensì direttamente per le piattaforme streaming?
Beh, ancora non si è capito appieno a cosa servano le piattaforme. E non capirlo è già un primo passo. Bisognerebbe capirlo sempre meno perché – lo dico malinconicamente – è una mia ossessione quella della lunghezza perché tanto i film durano comunque un centimetro o quindici secondi. Anche se magari si riferiscono a quindici ore. E poi c’è una malinconia ulteriore che è quella di sentirsi un po’ esclusi da questa macchina, che sia bella o brutta. La bellezza di questo sistema è vedere un bambino di sei sette anni che apprende il cinema e la TV e li impasta con musichette e musicone, anche se mi sembra innegabile che queste possibilità vengano di fatto inghiottite, non secondo una divisione in buoni e cattivi, ma in conoscitori e quelli che, non sapendo, restano particella sconosciuta. La rabbia è che nessuno, salvo i nomi che abbiamo fatto, tiene in conto la possibilità di bruciare set e budget in ogni momento. C’è, in tal senso, decisamente una tendenza ad arrendersi molto rapidamente a Netflix.
Il ricordo di Carmelo Bene.
Poco tempo fa è uscito “Discorso su due piedi”, bellissima trascrizione di un incontro avvenuto tra te e Carmelo Bene nel 1998. Cosa ricordi di quello che troppo spesso si dimentica di citare come uno dei più grandi intellettuali del nostro secolo?
Che era un uomo senza qualità se non tutte. Uno che ha trasformato qualsiasi cosa abbia toccato in “un capolavoro di Carmelo Bene”. Credo che sia davvero molto sottovalutato in questo momento, però, paradossalmente, questo gli garantisce un’altra stagione, ne sono sicuro. Perché Carmelo non si è limitato all’attacco frontale ad arte, cinema, televisione e teatro. Non si è limitato allo scontro che pure lo solleticava molto. Quel polemismo a testa bassa così fortunatamente frivolo. Quel suo lavorare sull’eccesso dichiarato e così fanciullesco. Ci sono delle sue cose fatte per la TV che sono stupefacenti per precisione sul presente e previsione, come il “Don Giovanni”. Il discorso ripreso dal libro verteva per lo più sul calcio, visto come metafora della regia.
Intervista a Enrico Ghezzi. Gli ultimi giorni dell’Umanità.
Questo tuo progetto indefinibile di (non)film basato sull’assemblaggio digitale di trent’anni di archivio analogico.
Che però non è stato mai un progetto. Perché non è che la Rai avesse detto di no. Chiunque dice di no e, di fronte a un progetto così, si ferma. Io credevo di no. Avendo fatto, a quel punto, tutto…avendo verificato le puntate dell’Orlando furioso di Ariosto senza la parallelità di Ronconi, che è più plurale di una serie, coma già lo è l’Ariosto. In particolare l’Orlando furioso è un tipo di (non) opera che passa sotto terra, sotto guanciale. E qui si inserisce il discorso su Gli ultimi giorni dell’Umanità. Il modo pesante di Ronconi, un altro genio assoluto, però molto autocastrante rispetto al cinema. La cosa più cinefila che abbia mai letto di lui è di quando doveva scegliere un film per la Storia del cinema e lui scelse Lola Montes, che era e resta il più maledetto dei film di Ophuls, con la scomunica di Godard e Truffaut. Come titoloGli ultimi giorni dell’Umanità non è neanche detto che resti. All’inizio ci sembrava un bellissimo titolo, ma ora lo trovo troppo aggregante.
Intervista a Enrico Ghezzi
E se invece intendessimo Umanità non come genere umano ma come qualità?
Bella come lettura. Infatti è ancora il nostro titolo.
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