Sentieri Selvaggi (The Searchers) è un film western del 1956 diretto da John Ford. Nel 1989 è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Nel 1998 l’American Film Institute l’ha inserito al novantaseiesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi, mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è salito al dodicesimo posto. Universalmente riconosciuto, oggi, come uno dei capolavori di John Ford, se non uno dei massimi capolavori del genere western in assoluto, Sentieri selvaggi all’uscita nei cinema suscitò reazioni molto contrastanti ed ebbe fra i suoi detrattori proprio alcuni dei più affezionati fan del vecchio maestro (come Lindsay Anderson, Sam Peckinpah, o Jean-Luc Godard). Di certo, caratteristiche come l’estrema dilatazione temporale degli avvenimenti (con intervalli fra una scena e la seguente anche di svariati anni), la ricchezza della trama, la complessità psicologica del protagonista e l’ambiguità ideologica (che presta il fianco ad accuse di razzismo), lo rendono un film di non immediata comprensione e tale da richiedere visioni plurime per poter essere apprezzato pienamente in tutte le sue sfumature. Questo vale in particolare per la relazione tra Ethan e Martha. Oggi riconosciuta dai più, fu però rappresentata in maniera così sottile che pochi degli spettatori dell’epoca riuscirono a coglierla. Il film è basato sull’omonimo romanzo del 1954 di Alan Le May, che condusse personalmente ricerche su 64 casi di bambini rapiti dagli indiani. Si ritiene che il personaggio di Debbie sia ispirato a quello di Cynthia Ann Parker, una bambina di nove anni rapita dai Comanche che assaltarono la sua casa a Fort Parker nel Texas. Visse 24 anni con i Comanche, sposò un capo ed ebbe tre figli, uno dei quali fu il famoso capo Quanah Parker. Suo zio James W. Parker spese gran parte della sua vita e della sua fortuna per ritrovarla, come Ethan nel film. Venne infine liberata, contro la sua volontà, in un attacco del tutto simile a quello descritto nel film. Con John Wayne, Jeffrey Hunter, Vera Miles, Natalie Wood, Dorothy Jordan.
Sinossi
Finita la guerra di Secessione, Ethan torna a casa. Ritrova il fratello, la cognata, le loro due figlie Debbie e Lucy e il figlio adottivo Martin, di origine indiana. Un giorno arriva alla fattoria il reverendo Clayton con un gruppo di coloni e convince Ethan e Martin a unirsi a loro per dare la caccia agli indiani che razziano il bestiame. Ma mentre gli uomini sono via, i Comanches attaccano la fattoria, massacrano i genitori e rapiscono le due ragazze. Lucy è ritrovata morta; Ethan si mette alla ricerca di Debbie, insieme con Martin.
Insieme a Ombre rosse (1939), uno dei capolavori di John Ford, venerato e citato da registi come Scorsese, Lucas, Milius, Wenders e Tarantino. Lo splendore figurativo dell’autore tocca probabilmente l’apice, regalandoci inquadrature straordinarie che consolidano definitivamente l’iconografia del genere (si pensi solo alla “finestra” che apre e chiude il film o all’uso dei colori e dello spazio plastico in funzione dei personaggi e delle loro emozioni). Classico e moderno al contempo, tinge di amara crudezza il tema del conflitto tra wilderness e civilization: è chiaro che, in Ford, l’idealismo positivo dei decenni precedenti stava lasciando spazio a un crepuscolarismo di stampo pessimista. Raramente si è registrato un tale equilibrio tra tragedia, violenza e humour senza un solo calo nel ritmo. John Wayne sfodera la sua migliore interpretazione nei panni di un personaggio tormentato e controverso: il suo razzismo malato è specchio della profonda ambiguità della società americana da sempre in lotta con se stessa, la sua irriducibile solitudine ne fa un antieroe condannato al perpetuo vagabondare, cui non resta che tornare al deserto di cui è egli stesso parte integrante. Il cartello introduttivo ci annuncia che siamo in Texas, ma la Monument Valley che si scorge già dopo pochi secondi è al confine tra Utah e Arizona: non è un errore di Ford, naturalmente, ma un’ennesima dimostrazione che quello di Sentieri selvaggi è uno spazio (e, forse, anche un tempo) prettamente simbolico, in cui il Texas funge da luogo emblematico del genere western e la Monument Valley da meraviglioso sfondo di fronte al quale si sviluppano le vicende narrate. Bellissima colonna sonora di Max Steiner, impreziosita dalla canzone The Searchers dei Sons of the Pioneers. Sentieri Selvaggi non fu accolto bene dalla critica specializzata, sembra incredibile, ma l’opera narrativamente più complessa e audace di John Ford venne aspramente discussa, non piaceva ai benpensanti la sfaccettata e profondamente ambigua figura di Ethan Edwards né tanto meno l’alone di intolleranza, che sfociava in alcune scene in vero e proprio razzismo. In pratica vennero percepiti in modo negativo quelli che sono gli aspetti più caratteristici della pellicola: vedere un’icona, un vero e proprio mito di tanti film western come John Wayne uscire dagli schemi classici per trasformarsi in qualcosa di diverso era forse troppo per il pubblico dei primi anni ’50. Ma l’onestà e la correttezza intellettuale di Ford si misura proprio in questa circostanza, il regista non esita nel mostrarci la faccia più cupa, rozza e ignorante (colma di rancore) del suo eroe: le sprezzanti battute iniziali verso il giovane Pawley (“Ti si potrebbe prendere per un mezzosangue”), il ghigno beffardo mentre spara negli occhi di un cadavere indiano, la rabbia incontrollata sfogata sui poveri bisonti. Ethan Edwards è un personaggio colmo di un odio primitivo ma allo stesso tempo è anche un uomo combattuto, in lotta serrata contro la sua perversa natura. Curiosità: la posa di Ethan Edwards alla fine del film (che si stringe con la mano sinistra l’avambraccio destro all’altezza del gomito) è un omaggio di Ford e Wayne a Harry Carey Jr., leggendario cowboy dell’epoca del muto che era solito assumere questa postura. Tratto da un romanzo di Alan Le May.