Conversation
Climbing the Elixir: conversazione con la regista Monica Dovarch
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5 anni agoon
Partiamo dall’inizio.
A 18 anni ho lasciato la Sardegna per andare a studiare Antropologia Culturale a Bologna senza avere conoscenza della branca a cui poi mi sono dedicata, cioè l’Antropologia Visiva, di cui nessuno mi aveva parlato, neppure in ambiente accademico. Dopo la laurea, cercando una specializzazione che potesse fondere questa disciplina con una materia un po’ più pratica e che volendo potesse darmi lavoro, ho scoperto a Londra il Master Art in Visual Anthropology alla Goldsmiths University of London. Mi sono candidata e, con mia felicità, mi hanno presa.
Qual è la differenza tra le due discipline in termini di studio e, soprattutto, di applicazione?
Questa è una domanda che mi hanno fatto in molti e a suo tempo me la feci anche io appena arrivata a Londra. Ora sento di poterti dire innanzitutto che il film etnografico è molto lontano dal documentario classico. Nel primo non si ha un’idea preconcetta con la quale ci si reca in un luogo per trovare conferme ad essa, ma è invece il risultato di un accurato e paziente lavoro di campo e di tanta osservazione partecipata presso la cultura o sub-cultura che si vuole rappresentare. Quindi, non c’è l’imposizione di un’idea aprioristica da parte di chi filma, bensì tutto ciò che invece è l’antropologia e cioè l’andar a scoprire la lingua, il luogo, i rituali, i miti, le abitudini della cultura che si vuole studiare per poi costruire il concetto lì, sul posto. Ciò non toglie che è sempre e comunque indispensabile fare una ricerca precedente sugli usi e costumi della cultura che si andrà ad analizzare.
Ma tutti questi elementi nel film etnografico vengono ordinati per diventare una trama oppure no?
Questo è un po’ il problema dell’antropologia e per sviscerarlo ci vorrebbe un’altra intervista. La trama c’è, perché l’oggettività assoluta non può esistere, anche se per un lungo periodo in questa disciplina c’è stata l’illusione di raggiungerla. Ovviamente, si interviene normalmente sul montaggio ma in una maniera diversa. Per capirci: un documentario alla Michael Moore parte da tesi che si cerca di dimostrare a tutti i costi attraverso un’associazione di immagini anche astrusa e inaspettata, che però ha come scopo di trasmettere uno specifico messaggio allo spettatore. Al contrario, il film etnografico si apre verso l’esterno per raccontare l’essere umano così come si manifesta nella realtà e per riuscire a rappresentarlo come si manifesta verso l’esterno. Il tutto non dipende dal pensiero e soprattutto dalla visione etnocentrica dell’autore, della quale comunque è spesso molto difficile liberarsi.
Fatte queste considerazioni, ti chiedo in che modo Climbing the Elixir si collega al tuo percorso cinematografico? Quanto c’è di etnografico e quanto di cinema?
È una domanda difficile, perché nel mezzo di questo cammino ci sono anni di vita che hanno modificato il mio approccio. Diciamo che non ho mai avuto la presunzione di rispettare tutti i canoni necessari a realizzare un film etnografico; li ho capiti e fatti miei, ma ora sono nella fase di creazione del mio modo di comunicare la mia narrativa attraverso le immagini. Ho fatto ovviamente diversi esperimenti di osservazione partecipata, anche subito dopo gli studi, in un paese della Sardegna che si chiama Seneghe. Lì, secondo me, ho fatto tanta antropologia. In quello che però considero il mio film di esordio, e cioè S’orchestra in Limba, avevo già iniziato ad abbandonare il canone etnografico, perché, per esempio, le interviste non sono state il risultato di una vera e propria esperienza sul campo ma di un networking che mi sono creata prima di iniziare a girare il film. Era un insieme di 120 interviste in 57 paesi della Sardegna, con inquadrature fisse e strette su visi di uomini, donne e bambini fra i 6 e i 96 anni, volte ad approfondire le caratteristiche delle differenze fonetiche presenti nella lingua sarda. Con questo primo film ho iniziato a creare quello che è il mio stile e cioè fare documentari che, pur mischiando finzione e realtà, mantenessero un background antropologico. Dunque, il mio occhio rimane ancorato alle basi della mia formazione, il mio modo di fare cinema è invece diciamo più standard.
In Climbing the Elixir i due elementi come si fondono?
In questo lavoro ad essere veramente antropologica è l’approfondita ricerca che ho fatto, prima di iniziare le riprese, sui concetti e gli argomenti legati alla ritualità e alla tradizione sarda, su come quella comunità che ho voluto analizzare era abituata a vivere, su come gestivano i legami affettivi e il rapporto con la fede religiosa. Il modo di raccontarli, invece, non segue per forza i tempi dell’osservazione etnografica. Io avevo in mente cosa volevo dire attraverso questo film, quindi torna l’idea aprioristica di cui parlavo, tipica del documentario. Il montaggio è sicuramente costruito al fine di mandare un messaggio specifico, anche se in maniera abbastanza delicata. Poi, ho deciso di aggiungere delle musiche non provenienti dal luogo dove ho filmato, anche se questo va contro i principi di questa materia. In questo ambito anche il drone non credo sia ben visto perché non rappresenta un punto di vista umano e quindi veritiero. Io però mi sono aperta a quello che oggi le nuove tecnologie permettono di fare senza pormi tanti problemi sul fatto che stessi tradendo o meno dei principi e, nel caso specifico, mi piace giustificarne l’uso pensandolo come un punto di vista esistente, ovvero lo sguardo dell’aquila, citata nel film, attraverso cui vediamo dall’alto le zone dove abbiamo girato.
Da dove nasce l’esigenza di fare questo documentario?
Volevo far luce sulla storia di una comunità di caprai che ha vissuto seguendo uno stile di vita ormai superato, ponendo al centro del racconto le persone che a suo tempo ne furono protagoniste. Si parla di situazioni estreme, vissute nei monti in un ambiente carsico molto complesso sito nella zona dell’Ogliastra, nella Sardegna centro orientale. Questa parte dell’isola è anche molto famosa fra i ricercatori e studiosi di tutto il mondo perché vi è una grossa concentrazione di centenari. Non a caso l’isola rientra tra le cinque Blue Zone individuate e e analizzate da Dan Buettner per lo stile di vita dei loro abitanti. Ovviamente, nel mondo ci sono tante altre aree e piccoli paesi aventi lo stesso tipo di popolazione, ma lui comunque ha preso queste in considerazione. Dopo la pubblicazione di questa ricerca, per un lungo periodo di tempo c’è stato un boom mediatico e un alto interesse da parte di tutto il mondo riguardo alla longevità e agli elementi da cui questa poteva dipendere, come il dna, il cibo, il vino, la fede, la biodiversità, l’affettività. Negli Stati Uniti, proprio con Buettner – e la cosa mi fa un po’ sorridere – si è arrivati al punto di ideare un programma televisivo in cui a chi chiamava in diretta si davano indicazioni per vivere a lungo. I consigli erano quelli di avere una vita con constante ma relativo sforzo fisico, di rimanere nel nucleo familiare, di mangiare poca carne, bere poco caffè e vino, bere molta acqua. In svariati articoli pubblicati in Sardegna si è parlato della fede religiosa come elisir di lunga vita e di una corretta alimentazione a base di verdure legumi e noci di diverso genere. Tutte cose che non corrispondeva granché a quello di cui stavo sentendo parlare e di cui ho fatto esperienza nel Supramonte Ogliastrino. Io ero venuta a conoscenza di aree impenetrabili che i pastori erano riusciti ad occupare sfidando le leggi di gravità pur di seguire le loro capre, inventandosi pratiche di arrampicata senza imbraghi in passaggi pericolosissimi, senza contare la solitudine patita nei monti, lontano dalla famiglia, rischiando continuamente la vita. Allora, la domanda che mi sono fatta prima di iniziare a scriverne è stata: “Ma come è possibile che ci sia una così grande concentrazione di ultra centenari in un’area dove le persone hanno vissuto in maniera così pericolosa?”. Questo per me costituiva un punto fondamentale che volevo raccontare.
Dunque, si trattava di scoprire il segreto della loro longevità e se essa entrava in relazione con lo stile di vita?
Si, diciamo che si trattava di cercare di scoprire il segreto della longevità e non di trovarlo per forza, dato che penso che non ci sia. Anche perché mi ero chiaramente resa conto che il loro modo di vivere era spesso diverso e lontano dalle regole che veniva ritenute più adatte. Volevo davvero creare un po’ di shock, lo stesso che ho provato io e, al contempo, sottolineare l’impossibilità di individuare un elemento che porti una persona a vivere così a lungo in una vastissima complessità di fattori.
Ma parliamo di uno stile di vita che è figlio di un preciso periodo storico e culturale?
La lotta per la sopravvivenza in quelle montagne si porta avanti da millenni. Oggi sono in pochi a farla, avendo a disposizione molta più tecnologia in termini di mezzi di trasporto e possibilità di comunicazione che rendono tutto più facile. Il periodo storico di cui raccontano i personaggi del documentario riguarda gli anni ’50 ed è riferito alla comunità di caprari, detti alpinisti, di cui ho sentito parlare da Pino Lai nel Supramonte Ogliastrino nel corso di un lavoro precedente che stavamo realizzando con Arte TV. La volontà di farne dei protagonisti è nata dal momento in cui ho iniziato a sentire parlare di loro in racconti leggendari, così come appresi da due escursionisti più giovani, Pino Lai, appunto, e Sebastiano Cappai, presenti anche loro del film.
Tra l’altro, ad essere estrema non è solo la loro condizione lavorativa, ma anche il regime alimentare. Nel film questo aspetto emerge in maniera chiara.
C’è da tenere conto della solitudine sofferta per la lontananza dalla famiglia e, soprattutto, la difficoltà di reperire le cose più basilari, come per esempio l’acqua. La garanzia di questo elemento vitale sarà un problema del futuro e in parte lo è già oggi. Per loro, invece, lo è sempre stato. Vivendo per la maggior parte del tempo in un territorio carsico, capitava che l’acqua fosse nascosta nelle profondità della roccia e per usufruirne si doveva andare a cercarsela.
Nel film ci mostri la vecchietta di 103 anni che ancora oggi non rinuncia a bere tre caffè al giorno, oppure all’altro personaggio il cui padre mangiava carne a colazione, pranzo e cena. Si tratta di un regime alimentare contraria a ogni regola nutrizionista, quindi mi chiedevo se in qualche modo intendevi sfidare i dettami della medicina ufficiale o quanto meno metterli in discussione?
Fermo restando che la medicina ufficiale non ha ancora trovato una motivazione all’elisir di lunga vita, il tentativo è quello di far riflettere lo spettatore sull’impossibilità di definire uno specifico stile di vita capace di far vivere le persone più a lungo del normale. Quindi in maniera sottile, Climbing the Elixir vuole un po’ stupire smentendo quelle ricette spacciate per grandi verità. È il tentativo di comunicare gli stessi dubbi che ha provocato a me e la sorpresa che ho avuto dopo esserne venuta a conoscenza. Molte cose come quella del caffè non le sapevo neanche io, tanto che anche noi durante le riprese ci chiedevamo se per caso potesse essere davvero il caffè la causa dell’elisir.
Che tipo di difficoltà hai avuto nel corso della realizzazione?
Devo dire che realizzare il documentario non è stato per niente facile. Durante le riprese abbiamo camminato anche per dieci ore al giorno, con dislivelli da 0 a 700 metri di altezza sul livello del mare, portandoci sempre dietro tutta l’attrezzatura e sempre con lo stress che se non fossimo tornati alla base prima di sera saremo rimasti lì, senza acqua sufficiente e senza sacchi a pelo. Quindi, la nostra è stata una vera e propria avventura con tutti i rischi del caso, ma, ovviamente, mai quanto le imprese dei nostri personaggi. Quindi, spesso giocavamo su questo, ovvero sul fatto che noi fossimo in difficoltà nonostante i comfort moderni e loro, invece, avessero completamente un’altra concezione del pericolo. Questo ci ha dato anche tanta spinta nel portare avanti il progetto: la voglia di farcela per una sorta di rivincita personale! Ribadisco però che non è stato facile, lottare anche con le difficoltà di ognuno di noi, le vertigini, gli acciacchi fisici, i blocchi psicologici ad affrontare determinati passaggi. Insomma, implicava anche un lavoro mentale e un’assoluta concentrazione.
In Climbing the Eixir le parole sono importanti ma molta della sua comunicazione è affidata alle immagini. Quest’ultime sono assai ricercate e studiate, permettendoti di cogliere la bellezza come pure il richiamo ancestrale del paesaggio. Parliamo di come hai realizzato le riprese.
Il direttore della fotografia è Daniele Giuseppe Bornino, un carissimo amico e collega di Roma che vive a Berlino. Insieme, abbiamo realizzato un lavoro di cui siamo molto soddisfatti; a lui mi lega una forte amicizia. Non era la prima volta che collaboravamo, quindi diciamo che quando ci siamo ritrovati per questo film eravamo già maturi, anche nel sopportarci e comprenderci. In più, Daniele è stato molto generoso e disponibile a trasformare il mio pensiero in immagine. Le immagini del drone sono state fatte invece da Antonio Ruju, amico e collega che vive e lavora in Sardegna. Anche Antonio è stato molto disponibile, preciso e bravo nell’esaudire le mie richieste.
Questo ti ha permesso di creare una visione ubiqua e generale dell’ambiente. Al contempo, ci sono dei momenti in cui privilegi il particolare con la macchina da presa che si sofferma su dettagli minimali.
Si, questo si spiega con diverse ragioni. La prima è che a me i dettagli piacciono molto e poi perché per le persone in questione lo studio dettagliato del territorio poteva salvare la vita. In un ambiente così ostile anche il muschio o un ciclamino possono essere significativi e determinanti.
Oltre alla dialettica del particolare ne esiste un’altra che riguarda il rapporto tra estensione e circoscrizione spaziale.
Occorre ricordare che da lontano è impossibile individuare passaggi e altri elementi del paesaggio. Mi sono soffermata tanto sull’allontanamento dal territorio perché era affascinante per me sottolineare la difficoltà a distinguere se non guardi da vicino, il non accorgerti delle cose se ne rimani distante. Avvicinarti alla scala di rame, per poi allontanartene, porta allo smarrimento e alla meraviglia della scoperta di un paesaggio che nasconde minuzie e, come nel caso delle scala, l’intervento dell’essere umano.
Quindi la dialettica vicino/lontano diventa l’espediente per ricreare l’approccio di questi uomini all’ambiente. Da una parte lo studio del territorio, dall’altra il modo di collocarsi all’interno di esso.
Si, è proprio cosi. Sembra impossibile passare da una parte all’altra di certi pendii e, invece, se guardi bene c’è una scala di ginepro con la quale i nostri personaggi sono sempre riusciti a arrivare dove volevano.
Le interviste si alternano ad aperture sul paesaggio su cui inserisci una musica davvero straordinaria e fondamentale. Si tratta di suoni semplici e basici che rimandano alla scoperta e al mistero del tema trattato. La loro funzione mi sembra sia quella di dare respiro allo spettatore, permettendogli di riflettere e metabolizzare quanto appreso attraverso le parole dei protagonisti.
Le musiche sono state composte da Stefano Menion Ferrari, sardo che vive a Berlino, come gli altri amico e collaboratore. È la prima volta che inserisco una colonna sonora in un mio film e sempre per la prima volta abbiamo abbandonato la musica sarda. Ci sono tutte queste evocazioni per le quali abbiamo usato il drone (effetto sonoro), mentre quando c’erano situazioni di tensione che emergevano dai racconti dei protagonisti abbiamo impiegato i suoni del Hung Drum che io adoro, suoni di pietre strisciate su altri materiali. Il rumore d’ambiente, quello del mare o dei passi sul terreno sono entrati a far parte del sound. Secondo me, con Stefano abbiamo lavorato in un modo singolare: dopo svariate chiacchiere e scelta dei suoni da usare lui mi ha consegnato dei soggetti sonori che mi ha permesso di associare alle immagini come io volevo. Una volta fatto questo, lui ha affinato e armonizzato tutto. È stato davvero bello!
Lo sguardo d’amore verso i personaggi è lo stesso presente nel film precedente. Allo stesso tempo, l’atto stesso di guardarli diventa il documento di un mondo praticamente scomparso. Dunque, il valore dell’intervista oltrepassa i contenuti per diventare icona del tempo preso in considerazione.
Grazie, questo lo prendo come un complimento. Si parla molto di cinema documentario senza intervista e io ne sono affascinata. Quando ho fatto i primi esperimenti di film etnografici di cui parlavo prima non le ho mai inserite, quindi si tratta di uno stile che mi piace molto e sto già lavorando a progetti che mi permetteranno di approfondire anche questo. Poi, però, sono passata alla parola, concentrandomi sulla lingua come manifesto di una cultura, scoprendo come cambiando l’idioma, cambiano i significati, i modi di dire e le pratiche. Quindi, diciamo che la parola e il racconto hanno avuto anche in questo lavoro la stessa importanza delle immagini. Uno dei motivi è proprio la consapevolezza di dare eternità a queste narrazioni, una volta immortalate dalla macchina da presa, lasciando memoria di queste vite speciali come anche di una lingua che rischia di sparire.