Imbevuto di storia del cinema, a partire dal nome del regista, Marco Tullio Barboni, figlio del celebre Enzo Barboni (E.B.Clucher), con toni di divertita parodia, sia a livello iconografico (“Eyes Wide Shut”), che a livello discorsivo, attraverso l’appassionata citazione di Bergman e del suo “Settimo Sigillo”, e passando ancora per un quel che del cinema disse Jean Cocteau (la morte al lavoro), Il grande forse è un corto che ha il pregio di approcciarsi alla morte e alla sua rappresentazione con un’ottica diversa dai canoni di solennità e severità cui siamo abituati, operando uno spostamento su toni più lievi, quelli d’un disincantato Roberto Andreucci, personificazione d’una morte fuori forma e senza grinta. Girato tra le rovine dell’Appia antica, fatidicamente invase dalle lugubri feste della notte di Halloween, ed arricchito dal volto rugoso ed espressivo di Philippe Leroy, il film è un breve dissertare senza certezze su quel “grande forse” che altro non è il dubbio sull’esistenza o meno d’un Dio in cui credere, screditando le soluzioni facili dell’aver fede nella fede di qualcun altro e facendo avanzare l’interrogativo che a cercar l’idea di fondo (del film come della vita) si finisce per dimenticare la cura della superficie.
È con il dissacrare che di questi tempi forse si riconquista uno striminzito spazio per un confronto autentico e non già svenduto con il Sacro.
Salvatore Insana