Conversation
60 Festival dei Popoli: Medium, intervista a Laura Cini (Concorso italiano)
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5 anni agoon
Come già in Liberami di Federica Di Giacomo, anche tu scegli di affrontare la materia spirituale da un punto di vista laico. Volevo che partissimo da qui per incominciare a parlare di Medium.
Si, ho scelto di raccontare le vicende di personaggi che stabiliscono un’interazione con l’aldilà da un punto di vista esclusivamente laico proprio per evitare di cascare nella dialettica del credere o non credere. In termini pratici, questo si è tradotto nel filmare fatti che succedono per davvero ai personaggi e che, proprio per questo, sono svincolati dal ritenere o meno che stiano parlando realmente con i loro defunti. Per quanto mi riguarda, ho grande interesse per l’invisibile, che da sempre è stato al centro dei miei lavori. Il mio rapporto con la medianità e il mondo degli spiriti è sempre stato abbastanza burrascoso perché sin da piccola ho avuto delle esperienze di contatto che in seguito mi hanno condizionato; questo fino all’età di 27, quando, al termine di un’ultimo accadimento molto spaventoso, ho deciso di lavorare su me stessa per chiudere questo canale percettivo che mi faceva vivere così male. Detto questo, da documentarista è rimasta in me la curiosità di capire come stavano le cose e tre anni fa, sentendomi finalmente pronta per affrontare di nuovo questo argomento con i miei strumenti, ho deciso di realizzare il documentario. Conoscendo la medium, poi diventata la protagonista del film, ho capito che si tratta di una cosa non così paurosa; è un po’ come nella vita, c’è il bene e il male, per cui ho smesso di avere paura e di ritenere che credere e non credere fosse la domanda giusta.
Su tale dilemma mi pare che una risposta la diano i tuoi personaggi, i quali, partendo da posizioni agonistiche, piangono e si commuovono al termine di ogni seduta. Attraverso di loro mi sembra che tu proponga una possibile via per affrontare questa esperienza.
Esatto. Quello che ho poi imparato da questo discorso è che per dire credo o non credo dovrei in primis essere una profonda conoscitrice della psiche umana, capire se questa può arrivare a fare certe cose e solo dopo rispondere alla domanda. Che dipenda dalla psiche o dagli spiriti, girando il documentario sono diventata consapevole che le nostre potenzialità sono molto più alte di quelle di norma utilizzate e, quindi, che esiste un margine di possibilità più ampio rispetto al verificarsi di certe situazioni, al di là delle ragioni per cui esse accadono.
Hai fatto più volte riferimento alla paura e come capitava nel film della Di Giacomo anche nel tuo le situazioni potenzialmente più spaventose, quelle così frequenti nei film di genere, rientrano in un alveo di normalità, risultando tutt’altro che orrorifiche.
Si, era quello a cui volevo arrivare. Adoro il cinema horror e quello fatto bene posso dire che sia il mio genere preferito. Ciò detto, avevo voglia di fare un documentario che andasse a vedere la realtà della pratica, sia per quanto succede alla medium, sia per quello che riguarda le persone che si rivolgono a lei. Gli eventi a cui si assiste non spaventano, apparendo come un’altra possibilità di comunicazione.
Il tuo è un documentario che adotta espedienti formali tipici del cinema di finzione. La sequenza iniziale, ad esempio, si rifà a una situazione classica dei film horror, con la camera da letto immersa nell’oscurità e le voci degli spiriti a tormentare il sonno della protagonista.
La tua è una domanda interessante perché io volevo proprio iniziare con un codice che le persone riconoscessero presente in certi lungometraggi dell’horror. Dunque, partire da un immaginario comune e poi, un po’ alla volta, portarle in un altro luogo. Partire dal conosciuto per arrivare ad altro. Questo passaggio è la metafora di come io ho vissuto la medesima esperienza, perché in realtà le voci non dicono alla medium niente di pauroso, anzi, la tranquillizzano. Quando è successo a me avevo dodici anni e, sì, mi sono spaventata, ma in realtà lo spirito della donna che mi ha parlato non ha pronunciato frasi paurose. Anche Tarika stessa (la medium, ndr) dice che da bambina era spaventata dalle voci perché non aveva strumenti per gestirle, quindi anche i medium partono da un’iniziale paura per poi superarla con la conoscenza. Se uno ci pensa si tratta di una metafora della vita, abbiamo paura dell’altro fino a quando non lo abbiamo conosciuto.
Parlando degli espedienti del cinema di finzione, più che la sceneggiatura, mi sembra che questi siano relativi al montaggio, con frequenti backforward e costruzione delle immagini in cui i personaggi interagiscono tra loro e con la macchina da presa in maniera naturale e spontanea. Non ci sono interviste e tutto si svolge come se tu non fossi presente.
Il fatto che si tratti di persone a me vicine mi ha avvantaggiato, permettendomi di seguirle in quelli che sono i momenti più rappresentativi delle loro personalità. Conoscendoli nella vita non ho avuto bisogno di girare molto per ottenere ciò che volevo. Poi, si, la fiction l’abbiamo ottenuta con il montaggio, ma le riprese sono state assolutamente non scritte e quello che è successo si è verificato come lo vede lo spettatore. La cosa interessante è che i colloqui con i defunti dentro lo studio della medium li abbiamo girati in assenza di tecnici e operatori.
Cioè, hai piazzato la macchina da presa e sei andata via?
Si, abbiamo messo due piccole telecamere e microfonato i personaggi in modo che pur non potendoli vedere fossimo in grado di sentire i loro dialoghi. Il rischio è stato quello del fuori fuoco, come qualche volta è successo, ma abbiamo preferito dare la priorità all’intimità del momento.
Nel tuo come in altri documentari esiste la questione tra le necessità della messinscena e il limite oltre il quale la macchina da presa deve smettere di filmare. Tu che limiti di sei data?
Ho scelto di riprendere tutto per poi preservare i personaggi con le scelte di montaggio. Ci sono stati però dei momenti in cui ho smesso di filmare perché ho sentito di non potere andare avanti. È successo con Nadia (Angilella, ndr), quando lei esce dal secondo colloquio in cui cede all’emozione e ancora un’altra volta quando, dopo un colloquio con Tarika, Sirio (Zabberoni, ndr) stava cosi male che l’abbiamo fatto stendere sul divano; anche lì ho deciso di non filmare quel dolore così forte. In quei momenti ho chiesto aiuto alla troupe perché la situazione era andata al di là delle mie capacità di gestirla, non essendo io una psicologa.
Attraverso il montaggio suggerisci un accostamento tra le diverse esistenze dei personaggi. Per differenti ragioni, ognuno di loro si trova nella medesima condizione di solitudine e nel pieno del proprio percorso di liberazione. Una vicinanza, questa, testimoniata dalla particolarità del montaggio in cui senza soluzione di continuità fai una cosa sola della quotidianità dei protagonisti. Mi riferisco per esempio a quando Tarika rientra casa e inizia a spostarsi all’interno di essa e poi, con stacco impercettibile, vediamo Sirio fare la stessa cosa.
Le inquadrature all’interno delle case nascono dal mio animismo e dal fatto di relazionarmi ad esse come se avessero un’anima. Per questo mi piaceva essere nella casa prima del personaggio, immedesimandomi nello spazio dell’appartamento che poi li deve accogliere. Quanto dici l’ho fatto perché volevo dare la sensazione di come la medium non lasci nello studio i pensieri e le sensazioni dei suoi clienti ma continui a viverli anche a casa. Alla fine Tarika vive in uno spazio che è fatto dall’infinità di tante persone che si rivolgono a lei con i loro problemi.
Le inquadrature frontali effettuate all’interno della casa segnalano la continuità tra i diversi ambienti e per esempio degli ingressi che separano una stanza dall’altra. Così facendo, sembra che tu voglia ricreare il tema del film, che è quello della possibilità di contatto tra dimensione diverse. La medium è una sorta di “vaso comunicante” tra la dimensione terrena e quella metafisica.
Quello degli spazi era un elemento importante perché si tratta di quell’invisibile dove vivono la memoria e i ricordi che non possiamo vedere, né sentire.
A un certo punto sullo schermo appare il formicolio di puntini bianchi che di solito segnala l’interruzione dell’immagine. Visto l’argomento mi è sembrata una citazione del Poltergeit di Tobe Hooper.
In realtà, si trattava di materiale d’archivio relativo al matrimonio di Sirio, di cui ci piaceva far vedere la moglie. L’effetto di cui parli ci ha consentito per l’appunto di ritrovare un po’ il nostro codice horror.
Rispetto alla drammaticità dell’argomento e, in qualche modo, alla sua “oscurità”, tu scegli colori caldi, marroni e gialli e una luce tenue che trasmette allo spettatore un senso di accoglienza e di vicinanza.
Con David Becheri (direttore della fotografia, ndr) abbiamo parlato molto e ho lasciato a lui certe scelte. Io gli dicevo quello che volevo e lui ha interpretato i miei desideri. A parte questo, l’inizio un po’ horror l’ho girato di notte e volevo fosse ripreso nella maniera più realistica possibile. La scelta di David è andata su una fotografia naturale che poi abbiamo “riscaldato” nella correzione colore, cercando di rimanere nell’ambito di questa verosimiglianza. I colori accoglienti dovevano rispecchiare quella delle case intese come spazi che si prendono cura di noi. Il colore mi serviva a rendere questa idea.
Del passato dei personaggi riveli molto poco e quando lo fai ti riferisci all’essenziale, adottando in questo un codice da thriller esistenziale.
Questo è un po’ il lavoro di montaggio che ho fatto con Marco Duretti. Ciò che dici è successo sopratutto con il personaggio di Nadia. A Sirio la scomparsa della moglie ha stroncato la vita, per cui è stato impossibile scindere questo evento dal racconto della sua persona. Nadia, invece, ha cominciato questo percorso un po’ come un gioco, senza crederci molto, quindi alcune cose sono trapelate durante le riprese fino a quando, dopo il momento del crollo, lei si è rivelata, aprendosi rispetto al suo passato famigliare, irrisolto, nonostante gli anni di psicoterapia.
Applicata al personaggio della medium tale reticenza contribuisce a renderlo più affascinante, direi quasi intrigante.
Anche perché volevo preservare la caratteristica fondamentale del suo ruolo, che è quello di ponte, e poi la sofferenza nel portarsi dietro tutte queste sensazioni. Mi piaceva che rimanesse un po’ di pathos, nel senso che da una parte volevo documentare cosa succede nel mondo della medianità, in cui non si verifica quello che si vede nei film horror; allo stesso tempo, desideravo preservare un po’ di quel mistero che circonda la protagonista e delle persone come lei che, pur raccogliendo spiegazioni e sciogliendo i dubbi dei loro clienti, sono costrette comunque a fermarsi di fronte ai mistero dell’al di là. Intendevo svelare delle cose per sconfiggere la paura, ma allo stesso tempo non violare la sacralità di uno spazio invisibile.